Turismo estremo e self(ie)destruction

da | Gen 9, 2024 | IN PRIMO PIANO

La primavera scorsa il comune di Portofino, in Liguria, preoccupato dall’imminente turismo di massa estivo, ha emesso tramite la persona del sindaco Matteo Viacava, un’ordinanza che prevede sanzioni dai 65 ai 275 euro per chiunque si attardi nelle due «zone rosse» anti-affollamento istituite nel centro cittadino, e cioè la famosa Piazzetta sul mare sormontata dal promontorio e cinta dalle tradizionali case pastello e il molo Umberto Primo, mete storiche per la tipicità paesaggistica: la decisione è stata presa proprio a causa delle lunghe soste da parte dei turisti alla ricerca della posa ideale da pubblicare sui social e/o inviare a parenti e amici, soste che hanno determinato congestionamenti pedonali e, negli ultimi anni, anche disagi per il transito dei veicoli di emergenza, il tutto ovviamente acuito dalla morfologia angusta del borgo di pescatori.

Naturalmente le sanzioni non riguardano chi si ferma per pochi istanti a scattare una semplice foto ma soltanto i professionisti dei selfie e, per rendere il provvedimento più efficace, l’amministrazione ha imposto il divieto di sosta e fermata per tutti i veicoli e quello di passaggio per gli automezzi pesanti, decisioni che ad una prima lettura potrebbero sembrare eccessive o economicamente autolesioniste, ma che in realtà descrivono una tendenza trasversale e diffusa.

Nel maggio scorso, anche qui non a caso prima dell’assalto estivo, nel pittoresco villaggio austriaco di Hallstatt, sulle rive dell’omonimo lago, nel punto più instagrammabile del borgo alpino, è comparso un muro di legno eretto dai 700 residenti a difesa dei 10 000 e più turisti quotidiani in cerca dello scatto perfetto in copia-carbone con lo specchio lacustre in primo piano, chiesetta grigia e paesaggio sullo sfondo; la stessa cosa è avvenuta un paio d’anni fa in Nuova Zelanda, col Governo intento ad invitare i turisti a visitare e fotografare luoghi inesplorati piuttosto che replicare all’infinito la posa suggerita dagli influencer, e cioè di spalle alla fotocamera con braccia e gambe divaricate, quasi ad abbracciare il paesaggio montano.

Se a Pomfret, una cittadina del Vermont celebre per i pastelli del suo foliage autunnale, numerosi cartelli di divieto sono stati eretti attorno a una fattoria circondata dagli aceri (tra l’altro privata, ma questo non ha fermato i turisti intenti a calpestarne i terreni e spesso coinvolti addirittura in incidenti), a Bali, che ospita ogni anno un numero di visitatori doppio rispetto ai 4,5 milioni di locali, un gruppo di abitanti ha letteralmente catturato una bellissima influencer russa, Lisa Kosykh, che posava nuda di fronte a un albero sacro vecchio di 700 anni, al punto che la donna è stata arrestata e rimpatriata dopo aver pagato una cauzione, ma con la raccomandazione di esporre le proprie nudità alternativamente di fronte al Cremlino o alla tomba di Tolstoj.

I precedenti non mancano: nel 2022 un’altra influencer russa, Alina Fazleeva, era stata condannata ad eseguire un cerimoniale di pulizia dopo aver posato senza veli in un altro luogo sacro, mentre l’attore canadese Jeffrey Craigen era stato rampognato per essersi lanciato in una scatenata haka (la danza dei guerrieri maori) sul monte Batur, un vulcano protetto dall’Unesco, per non parlare, restando sempre nell’isola indonesiana più celebre al mondo, dei «nomadi digitali», ovvero di quei turisti cui basta un wi-fi per lavorare da remoto e che rinnovando un visto semestrale di 200 dollari senza pagare alcuna tassa, piaga che gli autoctoni operatori del turismo vorrebbero debellare opponendo severe barriere fiscali, o proponendo il provocatorio sequestro dello smartphone alla frontiera.

Esiste una vera e propria lista nera dei luoghi al mondo in cui i selfie sono vietati, che annovera la casa di Anna Frank ad Amsterdam, le Cappelle nella Torre di Londra o le strade di Pamplona durante la corsa dei tori (anche per ovvi motivi di sicurezza), ma ci sono anche luoghi tristemente noti, da un punto di vista sia etico che estetico, per l’affollamento del popolo dei selfie, come alcune balconate di Santorini durante il tramonto più suggestivo delle Cicladi, o il Roys Peak in Nuova Zelanda, raggiungendo vette grottesche come al Louvre di fronte alla Gioconda, dove il muro di telefonini impedisce la serena fruizione del capolavoro di Leonardo, o come a Venezia, sotto il Ponte dei Sospiri, quando circa un anno fa quattro turisti sono finiti in un canale per sporgersi e scattare una foto, ignorando le indicazioni del gondoliere che intimava loro di non spostarsi tutti sullo stesso lato dell’imbarcazione.

Eppure, nel corso dei secoli, centinaia di visitatori hanno disegnato e dipinto i luoghi che ritenevano storicamente o paesaggisticamente più rilevanti, e poi li hanno fotografati, così come la letteratura di viaggio è divenuta un vero e proprio genere (basta pensare a quanti scrittori e filosofi abbiano pubblicato il loro «Viaggio in Italia» fra l’Ottocento e il Novecento), ma nel nuovo millennio l’overtourism, da una parte incoraggiato dai voli low cost e da ogni tipo di promozione possibile, e dall’altra dalla cultura dei selfie, hanno «democratizzato» tale pratica, dapprima sostituendo ai paesaggi i personaggi, quindi clonando luoghi e pose dei propri influencer preferiti, il tutto per sentirsi parte di una comunità che vanta milioni di followers, a volte senza alcun merito o connotazione, né artistica né culturale, con buona pace dei content creator.

Non si tratta solo di un fenomeno di costume, visto che mobilita milioni di persone generando indotti da capogiro, ma di una vera e propria mutazione antropologica e sociale che celebra il primato della copia sull’originale, se si pensa che l’estate scorsa molti turisti hanno espresso la propria delusione nei confronti del «Lake Como», dato che non somigliava affatto alla sua versione su Instagram, e tale atteggiamento si riverbera in chi predilige fotografare o riprendere con lo smartphone eventi live piuttosto che viverli in diretta, o in chi va dal chirurgo plastico non con la foto della celebrità di turno, ma con la propria ritoccata su Photoshop.

Se più di vent’anni fa Naomi Klein scriveva su No-Logo, la bibbia dei no-global, che il coccodrillo della Lacoste si era «mangiato la maglietta», a testimoniare il trionfo del brand sul prodotto stesso, oggi la viralità delle immagini che affollano a miliardi l’Infosfera avvera le peggiori profezie del Debord de «La Società dello Spettacolo» e il turismo, nelle sue forme più estetizzanti e volgari, si avvicina alla pornografia: «La convergenza delle culture verso l’unità si verifica nel turismo e nella pornografia. Sono mondi paralleli, dove vigono regole simili. Massima riduzione nel repertorio dei gesti e delle azioni formalizzate. Minime differenze negli abbigliamenti. Tendenziale abolizione dei preamboli e delle diramazioni narrative. Tutto obbedisce a sequenze prefissate, dove mai si ride, si esegue. Non ci sono dubbi sulla comunicazione, in qualsiasi zona del pianeta. E il dubbio in sé non si confà né al turismo né alla pornografia (Roberto Calasso. L’Innominabile Attuale).

Sotto questo punto di vista non c’è differenza alcuna fra uno shooting di dieci minuti, con tanto di troupe e cambio abiti per le code di selfisti sotto il condominio Yick Cheong a Hong Kong, con cinque torri di venti piani, più di duemila appartamenti, e persino un affitto costumi e comparse, e un vero e proprio casting pornografico: nessun dubbio, solo prestazione.

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