Non va per il sottile Damien Chazelle col suo quarto lungometraggio, dopo il trionfo (con Oscar) di «La La Land», e le riuscitissime prove di «First Man» e «Whiplash», schierando una già rodata squadra composta dallo svedese Linus Sandgren alla fotografia, Mary Zophres ai costumi e l’inseparabile Justin Hurwitz alle musiche, che tanto peso hanno in questa «babilonia», girata come un’interminabile jam session solo apparentemente improvvisata.
Sua la sceneggiatura e la regia, che abbonda di piani-sequenza e virtuosismi vari (per un filmaker classe ’85, e ogni tanto giova ricordarlo), e che non perde mai il ritmo, nemmeno quando si cadenza in parti più intimiste che sembrano agire come vere e proprie provocazioni allo spettatore, componendo un cast che alla precedente coppia Emma Stone (che doveva avere il ruolo da protagonista, ma ha rifiutato) e Ryan Goslin, oppone invece l’inarrestabile Margot Robbie e Brad Pitt, meta-cinematograficamente il prequel di sé stesso in «C’era una volta Hollywood»; Jovan Adepo è il trombettista di colore Palmer, versione ottone e zucchero bruciato di Duke Ellington, mentre un mefistofelico Toby Maguire fa il gangster consumato dalle droghe in cerca di emozioni forti, laddove i camei di Olivia Wilde e Flea dei RHCP impreziosiscono la cornice già barocca dell’opera, e la sentimentale ascesa del messicano Manuel «Manny» ha come contraltare il compassato cinismo della voyeur/giornalista Elmor Saint John (un’ottima Jean Smart).
TRAMA
Nell’epoca d’oro del muto hollywoodiano, e prima della Grande Depressione, la California sembra un’orgia a cielo aperto in cui centinaia di comparse affamate, operatori e aspiranti star, ruotano attorno a celebrità la cui riserva di denaro, alcol e droghe sembra pressoché illimitata, un’era destinata a schiantarsi contro l’avvento del sonoro che inaugurerà uno stile recitativo meno fisico e più tecnico, e che proverà ad elevare il livello di una settima arte sino ad allora considerata dozzinale e quasi oscena, sia dai critici che dagli esteti di Broadway.
In questa rutilante festa felliniana, la sconosciuta e intraprendente Nellie Laroy (Margot Robbie) tenta l’ascesa, prima sostituendo un’attrice ammalata e poi appoggiandosi al galoppino di origini messicane Manny (Diego Calva), divenuto nel frattempo produttore esecutivo, mentre l’indiscussa star Jack Conrad (Brad Pitt) cavalca le scene con consumata esperienza, bevendo ettolitri di whisky e seducendo dozzine di fan, in un’esistenza che sembra sostenere e generare la stessa patinata realtà del set.
L’avvento del sonoro e la fine dei didascalisti (cfr. The «Actor»), rappresenterà l’epilogo di un mondo e dei suoi relativi eccessi, e nell’iniziale baccanale con esotico elefante e felina esibizione di Li Jun Li, la morte accidentale (?) di una ragazza richiama espressamente la dipartita di Virginia Rappe che tante grane provocò all’attore Fatty Arbuckle, e che segnò il passaggio ad una Hollywood più attenta e autoregolamentata.
Jack capirà di essere giunto al capolinea della sua carriera penetrando in incognito in una sala cinematografica durante la proiezione del suo ultimo film e, mentre il pubblico sghignazza, deciderà di andare avanti ancora un po’, nonostante la sua vita a tavoletta mal si accordi al compromesso, mentre l’amore di Manny per Nellie lo porterà a garantire per lei nei bassifondi più oscuri di Los Angeles, fino a dover fuggire per salvarsi la vita.
Fra tentativi di riabilitazione (alcolica e recitativa), relazioni che durano lo spazio di un ciak e set impossibili con comparse inferocite e macchine da presa distrutte, la jam session di Chazelle s’incaglia in riflessioni sul mito del cinema e sulla sua funzione catartica che mesmerizza milioni di persone trascinandole via dalla banalità del quotidiano, permettendo loro di sognare mondi alternativi e vite parallele, il tutto attraverso un’inoffensiva finzione più vera del reale (la scena in cui Margot Robbie piange a comando e senza glicerina, dosando i secondi e finendo col farlo solo da un occhio fa venire i brividi).
Babylon racconta con la magniloquenza di un kolossal la mutazione sociale e filologica di Hollywood attraverso la parabola dei suoi protagonisti, fino al ritorno di Manny, nel frattempo espatriato in Messico e ormai padre di famiglia e semplice gestore di un negozio di elettrodomestici, alla celebre Kinoscope che lo vide produttore e protettore della sua Nellie.
Le nostalgiche lacrime durante un film che rievoca la sua storia e quella di Jack e Nellie, mentre frammenti del cinema che è stato e che sarà si intrecciano in un caleidoscopio di colori, sono l’omaggio dell’ex batterista Chazelle al vero protagonista di Babylon: il cinema.
FRA BAZ E FITZ
Sarebbe facile definire caotico e scoordinato questo lungometraggio (e molti critici l’hanno fatto senza mezzi termini), o condannarne il discutibile montaggio o la prolissità, ma resta il fatto che Babylon è un’esperienza cinematografica assoluta, da amare o odiare mentre emana riflessi ed arde preparandosi ad esplodere: la partitura musicale continua à la Baz Luhrmann e le mille esplicite citazioni (Ivory, Anderson, Fellini, Bogdanovich e il Lynch più oscuro nelle parti noir) si compongono come un mosaico post-moderno che nella sua concentricità non perde mai il baricentro, perché Chazelle sa benissimo cosa dire e come dirlo e, proprio come in un’indiavolata jazz session, crea un argine entro cui deflagra l’improvvisazione.
La scena del serpente a sonagli, l’esplosione fecale dell’elefante direttamente sulla macchina da presa e il vomito di Nellie durante il party del suo, presunto, rilancio sono gli estremi viscerali di un’opera che improvvisamente si blocca nelle meditazioni pseudo-artistiche di Pitt-Conrad su un’Europa intenta alla dodecafonia e al Bauhaus, o nei sei-sette ciak di Margot che deve confrontarsi col sonoro, una mezzora di vessante frustrazione che passa endovena direttamente dalla troupe allo spettatore, dimostrando l’ambizione a un cinema «totale» da parte del regista di Providence.
Il nume tutelare di questo Babylon (a parte, ovviamente, il Kenneth Anger di «Hollywood Babilonia») non è cinematografico ma letterario ed è quel Francis Scott Fitzgerald autore non solo del Grande Gatsby, ma anche dei racconti dell’età del jazz, membro della Lost Generation hemingwayana, esule nella Parigi anni Venti di Modigliani e Picasso, e interprete di una prosa onomatopeica e scintillante, ma anche cantore di misere cadute e sogni infranti, poiché solo un cattolico di origini irlandesi e dalla fervida immaginazione poteva descrivere ascese e cadute così rovinose da ricordare nella loro aurea parabola il coalescere delle bollicine di champagne e il loro esplodere verso il niente di un’America totalmente priva di sfondo culturale, al punto di doverne ricreare uno maculato di star(lette), su cui ancora si proiettano le ombre platoniane di Hollywood.