Cop 28: cronaca di un fallimento annunciato

da | Dic 4, 2023 | IN PRIMO PIANO

È iniziata giovedì 30 novembre e finirà martedì 12 dicembre a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, la 28ema conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Cop), cui stanno partecipando tutti i paesi membri della Convenzione sul Clima e alcuni rappresentanti di organizzazioni governative; i macro-obiettivi sul tavolo sono quelli di ridefinire le nuove politiche ambientali, uscire dall’egida dei combustibili fossili, mitigare i cambiamenti climatici e aumentare il lavoro per lo sviluppo dell’energia rinnovabile.

Il presidente di Cop 28 sarà il ministro dell’industria e della tecnologia degli Emirati Arabi Sultan Ahmed Al Jaber, che ha dichiarato ufficialmente di volersi impegnare per «costruire un consenso tra le parti per promuovere l’azione per il clima» e dare priorità «agli sforzi per accelerare la riduzione delle emissioni attraverso una pragmatica transizione energetica, riformare l’uso del suolo e trasformare i sistemi alimentari».

Ma uno dei nodi da sciogliere di quest’evento, da molti definito epocale, è proprio la discutibile scelta della location, visto il feeling di Dubai col petrolio, e il conflitto d’interessi potenziale del suo stesso presidente: un gruppo di giornalismo investigativo (Center for Climate Reporting), insieme alla Bbc, racconta grazie all’accesso a documenti riservati, di come Al Jaber, che oltre ad essere presidente di Cop 28 e ministro, è anche manager delle rinnovabili e amministratore dell’azienda petrolifera emiratina Adnoc, voglia sfruttare la copertura della Conferenza per stipulare contratti di gas e petrolio con altri paesi.

Nei mesi scorsi, a gridare allo scandalo sia per la sede prescelta che per il ruolo e le incompatibilità del suo presidente, erano stati centinaia di parlamentari Ue e Usa, oltre ai movimenti giovanili per il clima, ma l’unica chance concessa al sultano per rilanciare la propria credibilità internazionale, e cioè rendersi ambasciatore dell’industria oil and gas verso le rinnovabili, si è infranta contro il progetto di abbandonare solo le fonti fossili per le quali non è possibile catturare la Co2 emessa durante la combustione, e questo perché le tecnologie di «cattura e stoccaggio» da lui propagandate sono ancora allo stato embrionale, e quindi le sue affermazioni sembrerebbero soltanto l’ennesimo pretesto per guadagnare tempo sul petrolio.

Il 2 dicembre scorso è stato il giorno al summit Cop 28 del nucleare «pulito» di ultima generazione, visto che una ventina di paesi (tra cui Stati Uniti, Francia e Regno Unito) hanno stretto un patto che punta a triplicare la produzione di energia atomica entro il 2050, patto obliterato culturalmente proprio dagli Emirati Arabi, da John Kerry quale portavoce della Casa Bianca, da Emanuel Macron, mentre il premier belga Alexander de Croo ha annunciato che nel 2024 organizzerà nel proprio paese il primo vertice mondiale sul nucleare, insieme all’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea).

Complesso e in continua evoluzione è sempre stato il rapporto fra l’Italia e il nucleare: era il 1987 l’anno del suo primo referendum abrogativo, che raggiunse il quorum con una netta vittoria del «si», anche alla luce del disastro di Chernobyl avvenuto soltanto un anno prima, e lo stesso esito ottenne quello del 2011 che bocciò l’apertura al nucleare del Governo Berlusconi, sull’onda (nell’etimo) del maremoto che aveva danneggiato la centrale di Fukushima, sversando elementi radioattivi nell’oceano.

Dieci anni dopo, mentre Wwf, Greenpeace e Legambiente continuavano a considerare anacronistici i discorsi sul nucleare e inutili i fondi di investimento a lui dedicati, che sarebbero dovuti andare al contrario allo sviluppo delle rinnovabili, ci sono state delle aperture da parte dei Cortei di Fridays for Future, e nel 2022 la Commissione Europea ha inserito l’energia a fissione nucleare fra le attività considerate economicamente sostenibili, portando gli ambientalisti al ricorso e spaccando in due il Parlamento Europeo (57% a favore della decisione della Commissione, 43% contrario e 5% di astenuti).

Attualmente nel Belpaese (fonte: Bva Doxa) il 41% è favorevole al nucleare, il 53% sfavorevole e il 6% non si esprime, numeri decisamente meno plebiscitari rispetto a quelli del 1987 e del 2011, anche perché non governati dalla spada di Damocle di disastri o crisi energetiche: è inoltre interessante notare che la maggioranza dei favorevoli è laureata, risiede al centro-nord ed ha accolto positivamente il divieto europeo alla vendita di veicoli a benzina e diesel entro il 2035.

Nel frattempo, dopo gli incendi ellenici, le alluvioni in Libia e Malawi, l’uragano Ciaràn in Toscana e l’esondazione del Seveso, e i 24 disastri climatici statunitensi dal costo d’un miliardo di dollari circa a evento, il 2023 si candida a divenire l’anno più caldo in assoluto dalla metà dell’Ottocento: Papa Francesco, assente a Cop 28 per motivi di salute (ha inviato il Segretario di Stato Vaticano Pietro Parolini) ha espresso più volte preoccupazione, anche con l’esortazione apostolica «Laudate Deum», per l’emergenza climatica, Biden e il leader cinese Xi hanno scelto di non far parte dei 70 mila di Dubai e, mentre Cina e India sembrano non voler rinunciare integralmente ai combustibili fossili per le proprie economie in ascesa (Pechino ha anche affermato che la responsabilità per le emissioni è storica e riguarderebbe solo l’Occidente), l’argomento più spinoso è quello relativo alla «finanza climatica», visto che il Sud globale accusa i paesi ricchi di non aver mantenuto gli impegni economici presi.

Per raggiungere l’obiettivo di 1,5 gradi vaticinato dall’Accordo di Parigi del 2015, sarebbero necessari 3000/3005 miliardi di dollari l’anno, mentre il Green Climate Fund ne prevede solo 100 annui, fra il 2020 e il 2025, e comunque tali cifre finora non sono state mai nemmeno raggiunte.

Dal lato Italia la Meloni ha parlato, proprio a Dubai, di «transizione ecologica e non ideologica» e di obiettivi concretamente raggiungibili, nonostante molti esponenti di Governo continuino a negare responsabilità antropiche nel cambiamento climatico e i 9 gigawatt di rinnovabili creati fra il 2022 e il 2023 contro i 172 della Cina (fatte comunque le dovute proporzioni) danno comunque le dimensioni della lentezza del nostro paese su questo tema, lentezza che fa rima con sconfitta se si pensa alle difficoltà nell’abbandonare gli 8 gigawatt di carbone entro il 2025 (Phase-out).

Greta Thunberg, assente anche lei a Cop 28, ha definito «completamente ridicola» la nomina a presidente dell’emiratino Al Jabar, mentre l’attivista keniota Eric Njugugna ha commentato, più sardonicamente: «una zanzara guida la lotta alla malaria» ma, polemiche a parte, le 197 delegazioni cui spetterà il voto finale il 12 dicembre hanno la grande responsabilità di decidere se questo summit sia stato un’opportunità o solo l’ennesima occasione persa.

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