Presentato il 22 ottobre scorso al Festival del Cinema di Roma, per il ventennale della sua scomparsa, «Io, noi e Gaber» è il documentario-omaggio di Riccardo Milani alla controversa e imponente figura del cantautore (cantattore) meneghino che tanto lo ha accompagnato e influenzato nell’arco della sua vita e carriera: «è stata una voce importante per tutti noi anticipando tutto quello che in questi decenni si è avverato, prevedendo che l’ideologia del mercato avrebbe schiacciato oggi tutte le altre, segnando una disperata continuità tra lui e Pier Paolo Pasolini […]».
135 minuti di materiale d’archivio Rai, interviste, spezzoni, lacerti teatrali, un mosaico che cerca di ricostruire l’itinerario umano e artistico di un’incontenibile maschera in grado di vivere, e patire, tutte le contraddizioni di un’Italia uscita dal boom economico e dagli anni di piombo, spaccata a metà fra militanti di sinistra, extraparlamentari ortodossi, ma soprattutto piccolo-borghesi delusi da una rivoluzione mai compiuta e pronti ad aderire supinamente alle logiche del consumismo più deliberato.
Tanti gli ospiti: da un Gianni Morandi che firmò il suo primo contratto discografico portando ai provini proprio una canzone di Gaber, e che lo ricorda pronto a difenderlo da due giovani integralisti che non volevano ammetterlo a un suo spettacolo, passando attraverso l’appassionato Mario Capanna e l’ironico Pierluigi Bersani, e poi Gino e Michele (che gli ispirarono indirettamente il testo di «Destra o Sinistra»), Fulminacci, la figlia Daria, il collaboratore di sempre Sandro Luporini, la silenziosa Ombretta Colli, la commovente testimonianza di Vincenzo Mollica sotto una gigantografia di Andrea Pazienza, e ancora Fabio Fazio, Jovanotti, Michele Serra, Massimiliano Pani, Mogol e altri ancora.
Il percorso tracciato da Milani è cronologico, anche se trasversale, e parte dagli esordi milanesi in locali come il Derby, o versiliani come la Bussola, con un Gaber molto vicino alla canzone popolare e legato al territorio (basta ricordare «La Ballata del Cerruti Gino», ode anche al quartiere Giambellino), fino all’esperienza televisiva che lo vide appena venticinquenne già autore e conduttore di programmi di grande successo, in grado di duettare da par suo con Mina e Celentano (grande assente fra gli intervistati), fino alle collaborazioni surreali con Jannacci, quando le movenze «presleyiane» dei primi anni matureranno in una corporalità più straniante e teatrale (non a caso i due saranno Vladimiro ed Estragone a teatro), per approdare alla rottura col piccolo schermo, vissuto come una violenza sia per il fautore che per il fruitore: emblematico in tal senso è uno spezzone scovato da Milani in cui il signor G. spacca con la testa proprio uno schermo televisivo.
Sono gli anni della collaborazione col pittore e paroliere versiliano Sandro Luporini, che li vara nell’Olimpo dei duetti d’autore insieme a Sgalambro/Battiato o Battisti/Mogol, e che esordisce col disco live «Il Signor G.» del 1970, testimonianza della prima vera tournée di quel teatro canzone che ne segnò la seconda parte della vita ed esperienza creativa.
La rinuncia al nome per esteso diviene al tempo stesso affermazione politica di quel privato come personale senza cui nessuna vera rivoluzione è mai possibile, ma anche negazione del soggetto come arroganza e pretesa d’essere, sulla scia del migliore cantautorato francese, cui Gaber si ispirava apertamente, ma anche delle sue letture esistenzialiste, che includevano anche e soprattutto la scuola di Francoforte.
«Io, noi e Gaber» è un documentario onesto, realizzato da un commosso fan e da una pletora di vecchi amici, famigliari e intellettuali, che hanno visto, conosciuto e amato il signor G., ma l’odore di naftalina (se non della formaldeide) trasforma il segno di un grande arrabbiato del Novecento in una chiusa testimonianza intrisa di sentimentalismo e nostalgia, anche perché, tranne qualche intervento del cantautore Fulminacci, non c’è spazio per interviste a giovani scrittori o musicisti che di fatto esistono e che continuano a interpretare (e perpetrare) la sua musica e i suoi testi.
Negli ultimi anni il documentario come genere, in tutte le sue ibridazioni (mockumentary, eccetera) si sta imponendo come spazio di sperimentazione stilistica (ri)dando voce a personaggi ed ere storiche sepolte nell’immaginario collettivo come reperti archeologici, e questo grazie a clip, stop-motion, animazioni: l’imponente ripescaggio di super 8, VHS, materiali d’archivio, giornalistici frammenti, unito al sapiente montaggio postumo che diviene la cifra espressiva del regista, hanno creato docu-serie di altissima qualità capaci di valicare i confini nazionali ed imporsi anche all’Estero.
Tutto questo manca ai 135 minuti di Milani, e l’assonanza espressiva col suo precedente biopic su Gigi Riva («Nel Nostro cielo un rombo di tuono»), ugualmente inamidato e chiuso al presente, descrive un modo di fare cinema marmoreo e autoreferenziale, che alla tormentata malinconia di un certo cantautorato preferisce la nostalgia consolatoria e provinciale dei Techetechetè.
Il Gaber incendiario di «Polli d’allevamento» o di «La mia generazione ha perso», di «Quando è moda è moda» e soprattutto di «Io non mi sento italiano», penetra a fatica nella fatica di Milani, perché il signor G. è stato e rimarrà incompiuto come tutti i geni segnati dall’inquietudine, e se ne sarebbe altamente infischiato del commosso e celebrativo applauso finale tributatogli da tutti gli intervistati nell’ideale «Sipario» costruito dal regista.
L’anima «pop» degli anni Sessanta è divenuta contestazione della contestazione nel momento in cui la sinistra ha tradito i suoi stessi ideali e tutti i suoi interpreti hanno assistito troppo silenziosamente all’avvento massificante del mercato, lasciando una pessima eredità ai propri figli e nipoti («io non voterò mai a destra ma niente mi fa arrabbiare quanto la sinistra», diceva G. in un’intervista con l’immancabile sigaretta pendula dalle labbra).
Manca «Il Grigio», munifico esempio di teatro totale e di attore alla Diderot, così come manca una seria contestualizzazione critica o i parallelismi con un altro grande maledetto della musica italiana, quel Fabrizio De Andrè che condivideva con Gaber l’anarchico rifiuto di ogni ideologia, e sarebbe stato interessante ragionare su un altro mostro sacro (nel senso pagano del termine) del teatro italiano, anche lui autocannibalizzatosi da Carmelo Bene in C.B., non più attore ma corpo-macchina.
Resta il corpo-Gaber, irriducibile alle celebrazioni postume e alle riproduzioni meccanico-digitali, corpo-evento per antonomasia, solitario burattino collodiano, monologante e grottesco, resta l’urlo finale dopo ogni rappresentazione, tribale e liberatorio, contagioso e pervasivo, resta la voce dai mille registri e la musicalità («avrebbe musicato anche l’elenco del telefono») che lo avvicina, per sperimentalismo ed avanguardia, allo Stratos delle diplofonie («la voce sta alla musica quanto il proletariato sta alla storia»).
Infiniti sono gli eredi (basta pensare ai CCCP e a tutta la generazione del recital-cantando) e liquido il testamento che lo avvicina a Pier Paolo Pasolini per capacità visionaria e passione critica, ma questo spirito di ricerca manca al film di Milani: a tale funerale di Stato (in buona fede per carità) preferiamo un cenotafio in absentia, col corpo-Gaber disperso in cenere in tutti i teatri e palcoscenici d’Italia.
Il vero nome di Gaber era Giorgio Gaberscik ma lui scelse uno pseudonimo perché sapeva che non sarebbe mai stato un radical(gaber)scik.