L’articolo 32 della nostra Costituzione recita così: «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti», e non è un mistero che l’organizzazione del nostro Ssn (Sistema sanitario nazionale) è storicamente fonte di rispetto e invidia internazionali, ma ormai da qualche anno, e soprattutto dopo e con la pandemia, le cose sono cambiate.
Morti evitabili, buchi nelle prestazioni, assenza di personale qualificato e l’inevitabile eroismo che tanto biasimava Bertold Brecht, mentre le immagini di medici e infermieri stremati e piagati dalle protezioni anti-covid facevano e ancora fanno il giro del mondo, obliterando lo stato di perenne emergenzialità di uno Stato che, come John Wayne, «non recita ma reagisce».
«Tutti hanno un piano finché non gli arriva un pugno in faccia», diceva Mike Tyson e la nostra Sanità è vittima di un pestaggio dall’alto che dura da decenni, frutto di sottovalutazioni e preferenze esterne, ma anche di una certa tolleranza (se non addirittura predilezione) per il privato che ci ha condotti, di fatto, a svendere o a negoziare un diritto inalienabile.
Nel Nadef (Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza) dell’ottobre scorso il rapporto spesa sanitaria/Pil, quest’anno al 6,6%, per il 2024 viene calcolato al 6,2%, e per il 2026 al 6,1%, laddove sia in Francia che in Germania supera il 10%: nonostante i ritocchi di liquidità in fase di perfezionamento della Finanziaria, gli aumenti di finanziamento del settore sanitario, che dai 123,4 miliardi del 2021 sono passati ai 136 del 2023, sono solo sulla carta perché il vero calcolo si fa sul Pil, e l’amara verità è che per raggiungere i livelli del Regno Unito servirebbero 20 miliardi in più l’anno, e per sfiorare quelli di Francia e Germania, ben 40.
La recente spinta del Governo sull’autonomia differenziata sembra non tenere conto del fatto che in molte regioni non si raggiungono i richiesti LEP (livelli essenziali di prestazione), soprattutto a livello medico-sanitario, e questo in un sistema già pesantemente diviso, rischia di implementare il privato o di sollecitare quel triste fenomeno che è il «turismo medicale», un tempo rivolto ad eccellenze mediche a basso costo fuori dai confini nazionali e che invece, negli ultimi anni, è divenuto semplicemente extraregionale.
Il dato più allarmante della crisi 2.0 della Sanità pubblica è che un italiano su cinque rinuncia alle cure: secondo un recente sondaggio Euromedia Research, tale rinuncia va dal 10,8% dei concittadini che fanno a meno di interventi di estetica e di igiene personale, al 7,8% che rinuncia a vere e proprie visite mediche, il che in termini numerici fa quattro milioni di individui su 51, e cioè l’equivalente di una grande metropoli.
Dopo l’astensionismo alle urne e l’abbandono scolastico, un nuovo tipo di diserzione pubblica abita l’animo di molti italiani, ma questa volta è più doloroso perché va a intaccare quella «cura di sé» la cui assenza crea danni psicologici non indifferenti, oltre ad abbassare e non di poco la qualità della vita e le aspettative sul proprio futuro.
Il Centrodestra difende, com’è ovvio, l’operato del governo sostenendo che non esiste governo che non abbia messo in bilancio meno della metà di quanto chiedevano le Regioni, e che ci sono realtà locali capaci di ottenere risultati migliori con gli stessi fondi o con meno finanziamenti di altre, ma il triste ritornello sulla meritocrazia e sul primato delle performances si schianta contro dei problemi sistemici, e contro l’indiscutibile realtà di regioni che, non riuscendo a coprire le spese sanitarie col denaro nazionale, sono costrette a tagliare su cultura, trasporti pubblici o istruzione.
Secondo l’Agenas (Agenzia sanitaria delle Regioni), il 35% dei cittadini che ha bisogno di cure non passa minimamente per il pubblico ma scivola direttamente nel privato, ma limitarsi a considerare questo dato isolatamente sarebbe miope perché tale scelta è veicolata dalla vera piaga del nostro Ssn: le liste di attesa.
La legge stabilisce varie classi di priorità: U (urgente), e cioè una prestazione da fare il prima possibile e comunque non oltre 72 ore; B (breve), che ha un limite massimo di 10 giorni; D (differibile), che prevede 30 giorni massimo per le visite, e 60 per gli esami; P (programmata), da effettuare entro 120 giorni.
Il problema, com’è noto a chiunque si sia recato in un qualsiasi CUP con un ticket, è legato alla lettera D, e i tempi d’attesa possono arrivare ad un anno o addirittura, come nel caso delle risonanze, non si riesce nemmeno a fissare un appuntamento: è facile scivolare dal tragico al grottesco, com’è capitato al sottoscritto osservando una donna in cinta al sesto mese sentirsi rispondere che il primo buco disponibile, per una visita ginecologica, era nove mesi dopo.
A loro volta le lunghe liste d’attesa nascono da un lato, dalla richiesta di prestazioni inutili (e su questo aspetto si invoca da anni una riforma), e dall’altro da un’offerta pubblica decisamente inferiore alla domanda, visto che di anno in anno il numero di servizi erogati si abbassa e la domanda cresce, in particolar modo dopo la pandemia, visto che molti cittadini dovevano ancora recuperare le prestazioni non effettuate durante il lockdown.
Nel frattempo, ogni anno duemila medici migrano verso il privato, e dal 2012 ad oggi gli italiani hanno aumentato di sette miliardi la propria spesa sanitaria privata, per non parlare del giro d’affari delle assicurazioni che nell’ultimo decennio è raddoppiato.
Più complicata è la pratica dell’ «intramoenia», e cioè la possibilità, da parte del cittadino, di ottenere una visita specialistica da parte di un medico del Ssn all’interno di un ospedale pubblico ma pagando il 100% della prestazione: si tratta di un sistema subdolamente efficace perché porta guadagno ai medici, ma anche al personale che sindacalmente ha ottenuto una redistribuzione sugli incassi, e all’azienda stessa che ottiene il 40% della fattura pagata dal paziente, col risultato che i call center forniscono con difficoltà i dati delle liste d’attesa e stornano più persone possibili in intramoenia, e i direttori generali non hanno alcun interesse a intervenire sui tempi biblici dei servizi offerti, visto che tale pratica ripiana i bilanci in sofferenza.
Antonio Conte, già dai tempi della pandemia, parlava di «ri-centralizzazione» della sanità pubblica e di modifica del titolo V della Costituzione, ma al di là delle possibili soluzioni, attualmente più che di diritto alla salute si può parlare di «delitto alla salute», delitto tutt’altro che perfetto, con fragili alibi e moventi più che evidenti.