Killers of the Flower Moon: le radici avvelenate d’America

da | Ott 31, 2023 | MONDOVISIONE

A 81 anni e con alle spalle film leggendari, Martin Scorsese sembra aver intrapreso il famoso «sentiero meno battuto» di Robert Frost, scegliendo di girare un film di 206 minuti, nell’era dei reel e della soglia d’attenzione d’un minuto e mezzo: adattando il saggio «Gli assassini della terra rossa: Affari, petrolio, omicidi e la nascita dell’F.B.I. Una storia di frontiera» (edito in Italia da Corbaccio» per il grande schermo, decide di affidarsi all’esperienza moderatrice di Eric Roth, Oscar nel 1995 per «Forrest Gump», col quale scrive a quattro mani la sceneggiatura, al sodale musicale di sempre Robbie Robertson, che nella sua carriera vanta anche una colonna sonora per un documentario sugli indiani, e per la fotografia, al Rodrigo Prieto dei suoi ultimi film.

Con un De Niro in stato di grazia, in grado di alternare dozzine di differenti stati d’animo senza mai scadere nel paradossale e un Di Caprio, col mento prominente alla Brando, in grado di far brillare un personaggio che è la quintessenza della mediocrità, «Killers of the Flower Moon» si candida a pellicola quasi perfetta, anche grazie alle belle interpretazioni di Lily Gladstone e Jesse Plemons («The Post» e «Il Ponte delle Spie»), e al discusso cameo di Brendan «The Whale» Fraser, che col suo stile urlato, da imbonitore del Sud, ha fatto storcere il naso a molti, ma ha aumentato ulteriormente l’hype dell’opera.

Le dichiarazioni in streaming di Scorsese contro il cinema dei supereroi («il cinema non è solo quello») ai tempi dell’uscita di «The Irishman», quelle sul cinema in generale («un film non è una cosa che mangi e poi butti via») e sul rispetto per gli attori («date lo stesso rispetto che conferite al teatro anche al cinema») si concretizzano in un lungometraggio godibile come un’esperienza non frazionabile in trailer o frammenti da inserire nella bassa macellazione dei social, sulla scia di una concezione registica votata non alla complessità ma all’attenzione.

TRAMA

Ernest Burkhart è un reduce della Prima Guerra Mondiale (ancora un reduce, come in «Shutter Island») che si reca dallo zio William Hale, proprietario terreno e allevatore a Fairfax, in Oklahoma, alla ricerca di un lavoro e di una sistemazione.

Con l’intestino compromesso a causa della guerra, dove svolgeva la mansione di cuoco, Ernest diventa autista ed entra a contatto con gli Osage, la locale comunità di nativi divenuta l’etnia più ricca al mondo grazie alla presenza di petrolio nei propri appezzamenti. Nell’iniziale paternale di accoglienza in famiglia, William, che ama farsi chiamare «The King», sonda i gusti del nipote e, nel raccomandargli sobrietà alcolica in pubblico, mentre gli versa un ottimo whiskey, gli testimonia il proprio rispetto per gli autoctoni, rispetto reciproco visto che lui parla la loro lingua (il «cinguettante» e ridicolizzato dai bianchi siouan) ed è un membro attivo e partecipe della comunità.

Amante di donne e denaro, passioni che Ernest non nasconde affatto, l’uomo inizia ad essere manipolato proprio dallo zio che gli fa capire come funzionano le cose a Fairfax: i bianchi sposano le donne Osage che poi scompaiono in circostanze misteriose in modo tale che i loro patrimoni, terrieri ed economici, cambiano colore.

L’ex veterano di guerra sposerà la nativa Mollie, bellissima ma malata di diabete, dalla quale avrà due figli e mentre consumerà le sue giornate fra alcol, gioco d’azzardo e piccole rapine, diverrà suo malgrado complice delle oscure trame di William Hale, finché la neonata FBI di J. Edgar Hoover, allertata da una visita degli anziani Osage a Washington, non inizierà ad indagare sulla sospetta e vertiginosa moria di nativi a Fairfax.

L’epilogo, culminante in un elegante radiodramma d’epoca in cui compare Scorsese stesso, toglierà la maschera a zio William, mettendo Ernest di fronte al dilemma se confessare o meno, ma la posta in gioco, con la Massoneria bianca che flirta col Ku Klux Klan, e il consiglio dei saggi Osage che intuisce l’imminente fine («I nostri figli saranno educati dai bianchi»), è decisamente più alta.

L’UOMO (BIANCO) SENZA QUALITÁ

Con una narrazione lineare e cronologica, che scarta ogni tipo di sperimentalismo postmoderno (va ricordato che il soggetto iniziale della storia viene raccontato come un flashback dal punto di vista del Bureau), e una fotografia satura ed evocativa, soprattutto nei momenti parossistici, «Killers of the Flower Moon» è un affresco di frontiera che trasforma l’ambientazione western in un noir anti-epico ricolmo di personaggi negativi e corrotti.

Alcolizzati, diabetici, malinconici, gli Osage vivono il canto del cigno della propria etnia e la ricchezza acquisita grazie all’oro nero dei bianchi sembra sempre più una maledizione che li allontana dai propri antichi riti; in un iniziale passaggio della pellicola Hale/De Niro dona al nipote un libro che racconta i miti dei locali nativi e in un’immagine che li raffigura in gruppo l’epigrafe chiede al lettore se riesce a individuare il lupo, lupo che naturalmente è rappresentato di fatto dai bianchi stessi.

Ritmato dalla onnipresente colonna sonora di basso tribale di Robertson, il rosario di delitti, complotti, furti e incendi, si stringe intorno all’amore di Ernest per Mollie, l’unica molecola di purezza in un insieme che sembra votato all’ineluttabile violenza della storia, violenza che stavolta Scorsese «tradisce» distaccandosi dal consueto iperrealismo à la Taxi Driver, rappresentandola in modo simbolico, come il denaro di cui tutti parlano e da cui sembrano invasati ma che, borghesemente, non viene mai mostrato.

L’idiozia, o ingenuità colpevole, di Ernest/Di Caprio, così ambigua da meritare tutte le sineciosi del mondo, si specchia nel mefistofelico Hale/De Niro: massone, ricco proprietario e allevatore che non si sporca le mani col petrolio ma indirettamente trama per goderne i benefici, cultore della storia Osage, loro amico e carnefice, nonché cattolico osservante ma pieno fino al midollo di tutti i difetti del provincialismo americano, come il considerarsi al riparo dalla giustizia federale, egli è senza dubbio il personaggio più complesso e riuscito del film, e uno dei migliori mai costruiti dal duo Scorsese/De Niro.

L’assenza di flashback, voci fuoricampo o personaggi minori di un qualche spessore (Scorsese gioca sulle triadi da tempo ormai), consente l’identificazione con la crudele bonomia di Ernest, tecnica usata da Nabokov in «Lolita» per identificare il lettore col protagonista pedofilo, rendendo quasi plausibile il cocktail di criminalità e purezza che è la cifra di una certa narrazione originaria americana.

«Killers of the Flower Moon» è anti-epico perché non corale, in quanto descrive le vicende di una comunità tutto sommato chiusa, ma le vessazioni alla «Dogville» si dilatano verso un cinema con ambizioni classiche stile «Il Padrino» o «C’era una Volta in America», non solo per la durata fluviale ma perché Scorsese ha la pretesa di ricostruire un mondo, e in questa poiesis non può non figurare il peccato originale e fondativo degli Stati Uniti: il massacro di cento milioni di nativi.

Con tre attori da Oscar (il languore malato di Lily Gladstone marchia a fuoco la pellicola) e una regia perfetta, questo lungometraggio si candida a classico moderno: con una memorabile scena di danza alla Cimino avrebbe anche potuto ambire al meraviglioso fallimento de «I Cancelli del Cielo».

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