L’undicesimo lungometraggio del romano Matteo Garrone è un coraggioso road movie che chiude il cerchio delle sue due prime opere («Terra di Mezzo» e «Ospiti»), narrando la storia di due ragazzi senegalesi, Moussa e Seydou, che sognano l’Europa, e in particolare l’Italia, affrontando un epico viaggio che da Dakar li condurrà in Sicilia attraverso Niger, Mali e Libia.
Due anni di lavorazione per reperire il materiale documentale necessario a rendere credibile la storia, effettuare il casting e sei mesi di sceneggiatura coadiuvato da Andrea Tagliaferri e lo storico collaboratore Massimo Gaudioso, ma anche dal Massimo Ceccherini che non ti aspetti, e che ha lasciato a bocca aperta più di uno spettatore rimasto a scorrere i titoli di coda: e la storia di Massimo Ceccherini, sopravvissuto a sé stesso, a differenza dell’amico Nuti, e miracolato dalla compagna Elena e dal cane Lucio, che lo hanno tenuto lontano dalla «bestia» delle dipendenze, facendolo approdare sul set di «Io, Capitano», a collaborare strettamente con l’amico Garrone che lo ha voluto per la sua anima «pop», è una storia nella storia, e una bellissima parabola di riscatto umano, oltre che artistico.
Il film è stato scelto per rappresentare l’Italia agli Oscar 2024 e ha portato a casa un Leone d’argento alla regia e il premio Marcello Mastroianni per Seydou Sarr, alla ottantesima mostra del cinema di Venezia.
TRAMA
Seydou e Moussa sono due adolescenti senegalesi che vivono a Dakar e sognano, come migliaia di coetanei sparsi per il mondo, di diventare cantanti rap e «firmare autografi ai bianchi»; le loro giornate si consumano fra la scuola, il bazar della madre di Seydou, che è orfano di padre e fratello di innumerevoli sorelle, le partite di calcio, i video su YouTube e le serali feste «sabar», incontri coreutici della tradizione senegalese che prendono il nome dall’omonimo strumento, e che somigliano alla nostra taranta.
Ma i due sedicenni, che da tempo lavorano di nascosto come muratori e falegnami per coltivare il sogno, celato ai genitori, di migrare in Europa, dopo un suggestivo passaggio dal locale stregone che li invita a chiedere il permesso di partire alle anime dei morti, fuggiranno nel cuore della notte, armati di pochi dollari e di un’ingenuità pari a quella che animava il giovane Jack Kerouac prima di intraprendere il celebre «On the Road».
Tra jeep traballanti, aguzzini senza scrupoli e un’emorragia di contanti senza precedenti, i due cugini raggiungeranno il Sahara e lì, camminando per giorni sotto il sole ottundente conosceranno, semisepolte dalle suggestive dune disegnate da Garrone, le prima vittime di questo straziante esodo.
Poco prima di arrivare in Libia, un imprevisto li separerà, e dal carcere di questa nazione-filtro, dove tortura e morte, ma anche cinismo e corruzione sono all’ordine del giorno, Seydou troverà un secondo padre che lo sceglierà come aiuto-muratore per soddisfare i vezzi edili di un potente mafioso, e così riguadagnare la libertà.
Il lasciapassare per l’Italia sarebbe a sua disposizione, ma il giovane deciderà di restare a lavorare come muratore (libero però dalla mafia libica) per battere le comunità ci connazionali alla ricerca del cugino; alla fine lo troverà, ferito e demotivato, e accetterà di divenire il capitano di una sgangherata nave di expat per pagare a sé stesso e al suo compagno di viaggio, il passaggio per l’Italia e (forse) per una vita migliore.
LA CATABASI DI GARRONE
Io, Capitano, che con un budget di otto milioni di euro è tutt’altro che una piccola produzione, è un film ispirato alle storie di Mamadou Kouassi (nato in Costa d’Avorio ed ora a Caserta) e del quindicenne Fofana Amara, ingaggiato come nocchiero di una nave libica che ha portato 250 persone in salvo dal Mediterraneo, rischiando da sei mesi a trent’anni di reclusione per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ma anche alle testimonianze di Brhanr Tareka e Siaka Doumbia.
Come (quasi) sempre, vedi Gomorra, Reality e Dogman, Garrone non rinuncia pasolinianamente al suo principio di realtà, ma la cifra poetica della pellicola, che ricorda un epico coming of age fra l’Odissea e Pinocchio, è anche intrisa di suggestioni pittoriche, come quella de «L’Annunciazione» del Beato Angelico o «la Passeggiata» di Chagall, poiché non bisogna dimenticare che il filmmaker capitolino, oltre che un appassionato di letteratura classica (ora sta lavorando a un progetto su «Le Metamorfosi» di Ovidio), è anche pittore.
Visivamente «Io, capitano» è un’opera estremamente suggestiva, coi campi lunghi su mare e deserto, e sulle rispettive dune e crinali su cui i migranti si trascinano come disperate pedine, e la scelta di desaturare progressivamente la fotografia (di Paolo Carnera), operazione già avvenuta in Pinocchio e che rappresenta la cristallizzazione dell’inferno e il disgregarsi dell’ingenuità, non fa che acuire l’aderenza all’incubo della cronaca, nulla togliendo alla potenza favolistica del viaggio.
Le accuse di eurocentrismo e didascalismo non tengono perché l’occhio della macchina da presa non è quello di un occidentale, ma di un testimone e di un poeta dell’immagine, che si è sganciato dalla narrazioni numerologiche degli sbarchi e dalle pastoie legali relative all’accoglienza, per mostrare un’Africa per niente sconfitta, ma vivace e dignitosa, pur nella sua povertà: il Senegal di Garrone è il trampolino per il mondo di qualsiasi adolescente che sogni una vita migliore, con le scontate mitologie del caso, come le t shirt della Juventus e del Barcellona indossate dai ragazzi all’inizio del film, poiché il vero orrore arriverà dopo, nel tragitto che verrà tracciato in rosso nei titoli di coda finali.
In pieno conflitto ucraino e nel mentre della follia ricattatoria di Hamas, col Medioriente ridotto a un’inaccettabile polveriera, «Io, Capitano» racconta un Olocausto presente rappresentando la moderna tratta degli schiavi attraverso il fatalismo di Seydou e Moussa, che ripeteranno più volte, fra i gangli delle mafie africane: «abbiamo altra scelta?» e, capovolgendo gli stereotipi cui siamo abituati, come nella bellissima scena della donna incinta sulla barca, che rischia di morire e perdere il bambino, cui il «capitano» Seydou fa fronte risvegliando l’orgia di corpi assetati e disperati con un accorato «Allah Akbar!!» che siamo soliti ascoltare in bel altri contesti.
Recitato in «wolof», lingua parlata dal 40% della popolazione senegalese, e che Garrone non conosceva, al punto che i due ragazzi venivano istruiti quotidianamente sul da farsi senza sapere nulla del copione, il lungometraggio ha conosciuto momenti di crisi, come nella scena della tempesta di sabbia che racconta il distacco fra i due cugini, ma anche molto emozionanti, come il passaggio in cui Seydou non vuole abbandonare una donna morente nel deserto, e la abbraccia come il «vero» Seydou Sarr ha fatto col padre poco prima della sua morte («non è stato difficile immedesimarmi nella scena»).
Lo sguardo finale di questo meraviglioso esordiente, ricolmo di lacrime che condensano paure e speranze, sollievo e rassegnazione, tristezza e responsabilità, sono gli occhi di un ragazzo che oggi vive in casa del regista e che si è potuto operare in Italia per un problema genetico alla vista, ma sono anche lo specchio individuale di un adolescente che rifiuta la riduzione di complessità della cronaca, reclamando il diritto di sognare una vita diversa, lontana dalla disperazione esistenzialista che intride ormai la nostra cattiva coscienza da più di vent’anni.