Happy End: la violenza dello sguardo nel cinema di Haneke

da | Ott 10, 2023 | MONDOVISIONE

Selezionato al festival di Cannes 2017 e per rappresentare l’Austria agli Oscar 2018 come miglior film in lingua straniera, «Happy End» è l’ultimo lungometraggio del registra tedesco naturalizzato austriaco Michael Haneke, che ne ha curato anche la sceneggiatura, affidandosi per la fotografia al sodale di sempre Christian Berger; nel cast, di altissimo livello, troviamo Isabelle Huppert (già con Haneke ne «La Pianista»), Jean-Louis Trintignan, scomparso nel 2022 e qui ideale giustapposizione di sé stesso in «Amour», Mathieu Kassovitz, regista di culto de «L’Odio» e de «i Fiumi di Porpora», il sempre istrionico e molto fisico Franz Rogowsky e Toby Jones, anglofono ed efficace come sempre.

Per le tematiche trattate, «Happy End» sembra un «aggiornamento» di «Benny’s Video» del 1992, ma anche una copia digitale dell’analogico «Caché» del 2005, anche se in questo film, che abbiamo già recensito, la questione coloniale e la cattiva coscienza dell’Occidente venivano rappresentate per sottrazione, mentre nell’ultima fatica del cineasta austriaco la cifra politica, pur emergendo dallo sfondo in cui era precedentemente relegata, diviene proprio per questo meno efficace e quasi secondaria, obliterando una filmografia che ha dato il meglio di sé solo creando un margine (nastro) bianco.

TRAMA

La pellicola inizia col live periscope di uno smartphone e finisce circolarmente nello stesso modo, al punto che una delle locandine di presentazione dell’opera è proprio l’inquadratura fissa dell’ultima scena attraverso un cellulare col tondo rosso del recording: basterebbe questo dettaglio per spiegare la fenomenologia del cinema hanekiano, una poetica dello e sullo sguardo, fatta di dispositivi sempre più tesi ad eliminare parentesi e filtri, e al tempo stesso spersonalizzante e cinica.

George Laurent è il patriarca, ormai ottantacinquenne, di una ricca famiglia appartenente all’alta borghesia francese, la cui azienda edile, ormai decaduta, naviga in cattive acque nonostante la figlia Anne si impegni, grazie all’aiuto del compagno, un banchiere inglese, a mantenerla in vita: suo figlio Pierre, con problemi di alcolismo e dedito alla vita notturna, sembra incapace di proseguire l’attività del nonno mentre l’altro fratello, Thomas, è primario di chirurgia e, nonostante abbia avuto da poco un figlio dalla nuova moglie, intrattiene una relazione sadomasochista con una passionale violoncellista.

Il tentato (o provocato) suicidio dell’ex-moglie di Thomas, a base di un cocktail di antidepressivi e antimalarici, porterà la figlia, la tredicenne Eve, a trasferirsi nella magione di famiglia a Calais e questa novità, oltre a illuminare come un impietoso faro i vizi e i segreti di tutti, sposterà parecchi equilibri facendo precipitare il fascino discreto della borghesia hanekiana in un’angosciosa spirale.

Il crollo del parapetto di un cantiere, che provocherà la morte accidentale di un immigrato e porterà Pierre ad incontrare il figlio della vittima (con pessimi risultati), ma anche il personale di servizio della casa, di origini marocchine, fino all’irruzione durante il pranzo di compleanno di George di un gruppo di extracomunitari, guidati proprio dall’ubriaco Pierre, sono la rappresentazione della cattiva coscienza occidentale, e la scelta della location non è casuale, visto che proprio nel 2017 è scoppiato lo scandalo della giungla di Calais, agglomerato suburbano di migranti in stallo per raggiungere l’Inghilterra passando per La Manica, vittime di ripetuti abusi e soprusi da parte della polizia francese.

Eve, che tenterà a sua volta il suicidio con gli stessi farmaci conservati dalla madre, confesserà al nonno di aver tentato di avvelenare una coetanea in colonia dopo la separazione dei genitori e la morte del fratello maggiore, mentre il senile patriarca le rivelerà (spoiler in spin-off) di aver soffocato la moglie malata dopo tre anni di assurde sofferenze, e di non esserne affatto pentito.

La scoperta, sempre da parte di Eve, non solo della relazione extraconiugale del padre ma anche della sua anaffettività nei confronti dei figli, della moglie e della ex moglie, traccia le coordinate per un finale che sembra (in)direttamente assecondare i desideri suicidi del vecchio George, anche se l’epilogo aperto si rivolge più ai testimoni che non ai protagonisti della storia, ammiccando ovviamente agli spettatori.

TEISCOPIA E CAMPI-LUNGHI

L’ombra della morte, cercata dagli adulti e desiderata (o provocata) dagli adolescenti, si proietta su molte delle trame intessute da Michael Heneke ma, a differenza di altre voci autoriali (basta pensare al nostrano «La Nostra Vita», in cui un analogo incidente toglie la vita a un lavoratore in nero proprio in un cantiere edile), non c’è senso di colpa nei suoi lavori e le inquadrature fisse di «Caché» si replicano anche in »Happy End», insieme ai campi lunghi che ritraggono con efficacia entomologica sia la violenza che l’alienazione: i meccanismi paranoici di «Todo Modo» di Elio Petri, resi ossessivi dalle riprese stile telecamere di sorveglianza, qui si sviluppano attraverso la teicoscopia, e cioè quell’ “osservare dalle mura« che in Omero porta Elena di Troia a raccontare in presa diretta ciò che sta avvenendo sotto di lei, un classico espediente narrativo che traslato nella modernità diviene sinonimo di voyerismo e dissociazione, in questo caso doppiamente letale perché intergenerazionale.

Il campo-lungo di Heneke, più una prospettiva fiamminga pittorica, non è solo il distacco dall’azione ma anche l’impossibilità d’intervento, che muta i testimoni in compiaciute vittime di un declino, politico e sociale, inarrestabile.

Qualcuno ha accusato Heneke di cinismo (o addirittura di nazismo) ma la «nazistificazione» dello sguardo, che come nella critica marxista a Sade non dà effettiva voce alle vittime, è l’ultimo grado di un j’accuse a una borghesia ormai capace solo di delegare, spettatrice inebetita della sua stessa decadenza: se, come diceva Pasolini, il montaggio dona un senso alla sommatoria dei piani-sequenza che è il cinema, e allo stesso modo è il tempo a «completare» la vita di un uomo, rendendola passata e non eternamente presente, la morte annunciata e sfiorata, desiderata e fallita, fa del cinema di Haneke un’eredità senza testamento, il corpo di un gallo che si dimena irrequieto, ben prima di essere stato decapitato.

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