Il mondo «immerso»: la multimedialità e l’esposizione

da | Ott 4, 2023 | IN PRIMO PIANO

Il rapporto fra tecnologia e arte, complesso e stratificato, desta l’interesse, e a volte la preoccupazione, degli addetti ai lavori già da molti anni ma con l’obbligato spartiacque della pandemia, che ha benedetto (o maledetto?) la genesi di visite guidate on line, mostre interattive, veri e propri viaggi comodamente seduti sul divano, un nuovo vocabolo si è inserito prepotentemente bella semantica dell’arte figurativa e non, e nelle sue molte potenzialità fruitive: «immersivo».

Nell’idea dei suoi curatori, una mostra immersiva è o dovrebbe essere un’esperienza percettiva in grado di veicolare le opere e il pensiero di un artista, aumentandone immediatezza ed estensione, grazie al contributo di adeguate tecnologie e, se da un lato questa prospettiva apre inevitabili scenari creativi, varando anche nuovi know-how lavorativi e figure professionali inedite, dall’altro, e senza apparire reazionari, sono in molti a chiedersi se tale connubio possa non solo migliorare l’evento-esposizione, ma anche semplicemente restituirne la giusta portata.

I «bersagli» preferiti di questa avanguardia dello sguardo sono stati ovviamente gli artisti pop maledetti per definizione, e cioè Van Gogh, Caravaggio, Klimt, ma anche il Cenacolo Da Vinci, che ha prestato il rupestre fianco a proiezioni, tecnologia 3D e via seguendo, con un discreto successo di incassi e il prevedibile abbassamento dell’età dei visitatori, ingolositi dalle stereometrie, dalle installazioni visive e dalla godibile, ma pericolosa in senso interferenziale, crasi musicale.

Col timore neoluddista di apparire conservatori, o di affermare concetti che poi verranno smentiti dalla realtà in divenire, molti illustri critici hanno taciuto di fronte alle mostre immersive, o le hanno semplicemente snobbate, mentre altri le hanno attaccate ingenerosamente definendole dei Luna Park paradossali, tesi più all’intrattenimento e al guadagno che non al reale intento di veicolare democraticamente l’arte.

Come sempre in questi casi, è sempre bene fare le giuste distinzioni: quando si parla di mostra multimediale si può intendere una mostra totalmente interattiva in cui la multimedialità è oggetto e scopo della mostra stessa, oppure un evento in cui le opere di un artista vengono inserite in un packaging virtuale che ne glossa significato e segni.

Ovviamente, nel primo caso, non c’è alcun bisogno di interrogarsi, eticamente e culturalmente, sulla valenza estetica della mostra, se non quello di munirsi dei giusti strumenti per comprenderla, ma nel secondo, la discriminante sembra essere la presenza o meno degli originali, oltre ovviamente alla manipolazione dello «spettatore estetico» (per dirla alla Nietzsche), e del suo sguardo.  

Un paio di interessanti ibridi potrebbero essere, da una parte, delle mostre tematiche in cui il nucleo concettuale delle esposizioni non sarebbero le opere ma i contenuti stessi, e in questo caso la multimedialità diverrebbe centrale perché permetterebbe ai vari segni di dialogare fra loro e con il fruitore, mentre nell’altra, e ne abbiamo avuto un esempio concreto con le «mostre impossibili», si potrebbero allestire delle mostre itineranti che esportino le opere più rappresentative di una nazione, o di un preciso periodo storico di quella nazione, com’è stato nel 2015 col Rinascimento italiano in Sud America, per il mondo, attraverso delle riproduzioni ad alta definizione e con proporzioni 1:1 degli originali.

Un ottimo spot politico per propagandare l’arte, ma anche un intelligente strumento promozionale che scongiuri gli ingenti costi del trasporto di quadri e sculture, e il relativo rischio di furto o danneggiamento.

Ma, tornando all’argomento centrale di questo articolo, e cioè le mostre immersive private degli originali o solo parzialmente provviste di essi, io penso che si vada incontro, a volte in buona fede, ad alcuni equivoci:

  1. Una rielaborazione grafica, o interattiva, per quanto elaborata non potrà mai sostituire il fascino e l’impatto di un originale perché, attraverso il contatto con l’opera finita e definitivamente consegnata alla storia, noi entriamo in sinestesia con la lotta dell’autore per raggiungere un proprio stile e un’originale direzione artistica, comprendendo il suo travaglio e percependo a livello viscerale quanto quella pennellata o l’armonia di un complesso scultoreo, siano il risultato di una sofferenza sublimata che non ci è affatto estranea, poiché è la nostra stessa sofferenza che, attraverso la mano del maestro, è divenuta simbolo eterno, e incompleto, del dubbio;
  2. Veicolando lo sguardo con una serie, più o meno efficace, di supporti audiovisivi, si rischia di saturare la già bassissima soglia di attenzione dei visitatori, impedendo loro quel silenzioso margine di distacco critico che le permetterebbe all’opera di diventare «la nostra» opera, colmando quel non-detto che da sempre e per sempre è il dialogo dell’artista coi secoli venturi: equivoco che diviene un vero e proprio danno estetico se si unisce all’eccesso di interazione cui spesso si assiste nel nuovo paradigma dell’immersività, con gli spettatori mutati in adrenaliniche comparse di un villaggio vacanze, costretti da invisibili animatori a divertirsi a tutti i costi.

Un ottimo esempio di «direzione ostinata e contraria», nel campo della multimedialità e della video arte, sono i lavori di Bill Viola che, fin dagli anni Settanta, vivi(video)seziona i mezzi di comunicazione di massa con scelte tecniche nient’affatto fini a sé stesse, e il cui scopo è proprio quello di liberare uno spazio nella mente del fruitore, invece di saturarla didascalicamente con informazioni e stimoli che, iconizzando le opere, gliele rendano estranee e inavvicinabili: il suo «Rinascimento Elettronico», o installazioni come «The Greetings» o «la Pietà», rispettivamente (rispettosamente) ispirate alle tele del Pontorno e di Masolino da Panicale, agiscono attraverso lo slow motion, con macchine da presa a 35 millimetri e ad alta velocità, proprio sul silenzio e l’attesa, che fanno scivolare lo sguardo nella meditazione, aprendo brecce che rivelano frammenti del Nostro sé.

Un’interessante proposta per le mostre a venire, più «emersive» che immersive, potrebbe essere quella di utilizzare la tecnologia come arte, appaltando le installazioni sugli originali a veri artisti multimediali che, ben conoscendo la portata concettuale delle opere, ne stratifichino il contenuto attraverso la propria voce, trasformando gli spettatori non in ubriache vittime di una sostituzione, ma in coinvolti testimoni di un duetto fra antichità e modernità: in fin dei conti, come dimostra il genio di Picasso, ogni innovazione in senso avanguardista, è una rivisitazione plastica di ciò che è stato, al cubo. Anzi al Cubismo.

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