«Let me see you stripped down to the bone…»

da | Ott 2, 2023 | MONDOVISIONE

Primo film totalmente americano e secondo horror, sempre che possa definirsi un horror classico il remake, o riscrittura, di «Suspiria», per il regista palermitano Luca Guadagnino, «Bones and All», adattamento dell’omonimo romanzo di Camille DeAngelis, che gli è valso il leone d’argento alla regia al Festival di Venezia, vede la collaborazione alla scrittura del fido David Kajganich, e una colonna sonora di tutto rispetto che spazia dai Kiss ai Joy Division, passando attraverso i New Order, e con un brano originale del duo da Oscar Trent Reznor e Atticus Ross.

Si rinnova il sodalizio fra l’Italia e Timothée Chalamet, che adora Guadagnino con cui ha lavorato ai tempi del pluri-incensato «Chiamami col tuo nome», per un lungometraggio che la critica ha unanimemente approvato e che alla prima proiezione alla laguna ha mietuto una standing ovation di dieci minuti, nonostante (o grazie al fatto che) si collochi a metà strada fra il road movie, il coming of age, il genere sentimentale e lo splatter, ma la caratteristica che lo rende al tempo stesso un apprezzabile ibrido e un’opera in perfetto stile Guadagnino è la fluidità con cui aderisce contemporaneamente ad ogni etichetta senza sfigurare.

Fedele a uno dei suoi numi tutelari, e cioè Bernardo Bertolucci, il regista siciliano lascia in alcune parti della pellicola ampio spazio agli attori, obliterando l’adagio del filmaker parmense naturalizzato romano: «Bisogna lasciare aperta la porta alla libertà del set».

TRAMA

Maren (Taylor Russel) è un’adolescente problematica che vive sola con suo padre in uno squallido appartamento e che una sera, durante un pigiama party segreto con delle amiche, quasi recide a morsi il dito di una di loro, cedendo a un irrefrenabile impulso che costringe il genitore, terrorizzato ma non sorpreso, a organizzare una fuga nel cuore della notte per risparmiarle il carcere, o qualcosa di peggio.

Quando diverrà maggiorenne, proprio suo padre la abbandonerà lasciandole una lettera, dei soldi, e una musicassetta (siamo nel 1988) dove ripercorre la sua infanzia, dai primi episodi di cannibalismo fino all’abbandono materno; Maren deciderà di mettersi in cammino e di ritrovare sua madre, avendo come unica traccia delle sue foto giovanili e il proprio certificato di nascita.

Lungo la strada che la separa dal possibile ricongiungimento materno, incontrerà Sully (un inquietante Mark Rylance), con cui condividerà il suo primo pasto cosciente, un’anziana signora in punto di morte, e che le rivelerà la facoltà di poter riconoscere i propri simili, oltre al fatto di non essere così pochi come pensava lei inizialmente, ma dopo averlo abbandonato spaventata dal suo compassato cinismo, incontrerà il giovane Lee (Timothée Chalamet) che gira l’America su un furgone scassato e che sembra in fuga da una situazione famigliare tutt’altro che serena.

I due cannibali finiranno con l’innamorarsi ma, poco prima che lei scovi sua madre (Cloë Sevigny), rinchiusa da anni in un istituto psichiatrico tramite l’angosciata testimonianza della nonna adottiva, si separeranno per la mancanza di scrupoli di lui, che non si fa alcun problema ad uccidere casualmente le proprie prede, invece di selezionare quella socialmente più deboli o malate.

Maren e Lee si ricongiungeranno e lui le racconterà del rapporto col padre, anche lui antropofago come la madre di lei, e dei terribili avvenimenti di quando era poco più di un bambino, ma proprio nel momento in cui la loro vita sembrerà assumere una parvenza di normalità, ricomparirà il nomade e assassino Sully che costringerà entrambi a ricordare chi, o cosa, sono.

DALLA TERRA DI MEZZO AL MIDWEST

Che il cinema di Guadagnino sia un cinema feticista e citazionista è noto agli appassionati del cineasta palermitano, e in quest’opera, fra poster dei Kiss e di cotonate pornostar anni Ottanta, capelli delle vittime conservati e annodati come rituali scalpi, e paesaggi notturni che ricordano il miglior Lynch, la sua wunderkammer da presa non potrà che confermare l’affermazione rilasciata in un’intervista: «Il cinema si fa con la memoria del cinema».

Maren legge «Il Signore degli Anelli» mentre taglia gli Stati Uniti alla ricerca non del proprio (Monte) Fato, ma di un passato che potrebbe accoglierla o maledirla, e la Terra di Mezzo di Tolkien si trasfigura nel Midwest a stelle e strisce, prologo industriale e sottoproletario di un continente che oggi fa dire a un ironico Chalamet che «il collasso sociale è nell’aria».

La scansione del film a sigle degli stati attraversati, racconta l’America cinematografica del Guadagnino adolescente, ma non c’è nulla di innocente nei cieli sezionati dai tralicci, negli squallidi motel e nelle ciminiere che si stagliano dal finestrino in corsa, se non l’incubo ecologico in divenire, così come la macchina da presa non si tira indietro nel mostrarci Jake e Brad, coppia disfunzionale costituita da un cannibale estremo e da un serial killer che lo è divenuto per scelta: è lì che Lee e Maren apprendono del «pasto completo», sorta di sballo definitivo alla William Burroughs, che consisterebbe nel divorare interamente la propria vittima, ossa incluse, raggiungendo l’estasi.

Attraverso Sully, Jake (un orripilante e superbo Michael Sthlbarg) e la mamma di Maren, che si è divorata le proprie mani, Guadagnino racconta tramite l’iperbole dell’antropofagia, tabù quasi universale, la pubertà e la solitudine, ma anche il viaggio iniziatico verso la maturità che è sempre la rinuncia a qualcosa, eppure la sua voce che così ben si accosta al basso timbro dei vagabondi di Kerouac, tratteggia l’estremo e l’estremamente contemporaneo, e cioè l’inappartenenza a un genere predefinito e l’alienato bisogno di trovare qualcuno che ci somigli e non ci giudichi.

«Bones and All» è la metafora di un amore così disperato e disperatamente solo, da esigere l’estremo sacrificio di noi stessi e del nostro partner, come in «Stripped» dei Depeche Mode, il cui ritornello dà il titolo a questo articolo, o nell’allucinante «La Madre di Dio», romanzo di quel Sacher Masoch da cui deriva il termine masochismo, in cui si giunge a ipotizzare come atto di totale appartenenza, l’essere divorati dalla persona che sostiene di amarci.

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