C’è stato un tempo, nella storia dell’umanità, e precisamente dopo il Medioevo, in cui la fiducia nella ragione e nella razionalità, la rivoluzione e il metodo scientifico che avrebbero poi condotto al positivismo, e con esse l’idea di un sapere oggettivo, universale e condiviso, sagomarono il paradigma della Modernità come storica progressione verso il Bene e un senso da perseguire attivamente, ma anche come libertà individuale e aspirazione all’emancipazione personale e sociale.
Negli «anni bui» l’idea di Modernità e, per estensione tutto ciò che portava al Nuovo, veniva visto come una minaccia allo status quo e combattuto strenuamente: basti pensare alle resistenze che subirono le grandi esplorazioni alla fine del Quattrocento o la tesi eliocentrica di Galilei, per non parlare, successivamente, della Rivoluzione Americana e Francese, che minarono dalle fondamenta un sistema di potere fondato sul censo e sui legami di sangue.
Eppure il Novecento, con le sue derive totalitaristiche e i milioni di morti mietuti dai conflitti mondiali, ha messo in crisi questa concezione ottimistica, basata tra l’altro su un concetto lineare ed evolutivo di tempo, inaugurando la dissoluzione delle grandi teorie (metafisiche, morali e politiche) dal pensiero forte, un sapere ridotto ormai a mero gioco linguistico e un nichilismo occiduo che ha celebrato la decadenza dell’Occidente, frammentato nell’irrazionalismo e nell’ironia, senza più una direzione da seguire né un senso cui approdare.
È in questa deriva, ontologica oltre che filosofica, che nel 1979, il filosofo e scrittore Jean François Lyotard, scrisse un libro che destò scalpore e cioè «La Condizione Postmoderna» (seguito pochi anni dopo dall’ironico «Il Postmodernismo spiegato ai bambini»), in cui cercava di delineare i principali passaggi della crisi della modernità e le nuove coordinate del pensiero occidentale.
Il testo fu commissionato inizialmente all’autore da una regione canadese come ricerca sociologica sulle condizioni del sapere nelle società post-industriali e tecnologiche, ma divenne subito lo scritto seminale del postmodernismo.
Va detto che il termine postmodernismo viene abbracciato tardivamente dalla filosofia, poiché la sua genesi va ricercata nella critica letteraria degli anni Venti/Trenta, più che altro iberica e americana, nell’architettura (basta pensare ai lavori di Paolo Portoghesi), e negli scritti dello storico Arnold Toynbee, uno fra i primi a descrivere il Novecento come il secolo dello scioglimento degli Stati Nazionali verso il globalismo.
Per Lyotard, invece, la postmodernità è l’epoca in cui vengono meno le grandi narrazioni, o metanarrazioni, della modernità occidentale, e cioè il meta-racconto illuminista, quello idealista e quello marxista:
- Per il «meta-racconto illuminista», il progresso umano si fonda su un’idea di storia come presa del mondo da parte dell’uomo attraverso scienza e tecnica, il cui traguardo è il Positivismo e una maggiore accessibilità al mondo fisico, per soddisfare al meglio i propri bisogni sviluppando un sapere che è essenzialmente delle e sulle cose;
- Per il «meta-racconto idealista», che trova le sue coordinate nei grandi filosofi tedeschi dell’Ottocento, soprattutto Hegel, la modernità è l’evoluzione o potenziamento della coscienza individuale in quella collettiva, un progressivo spiritualizzarsi della natura umana che finisce con l’identificarsi, metafisicamente, in Dio: non siamo lontani dalla narrazione illuminista, solo che in questo caso il sapere non riguarda l’oggetto ma il soggetto;
- Per il «meta-racconto marxista», la modernità è invece la fine dell’alienazione e l’avvento del Comunismo, come luogo di totale liberazione individuale: in questa concezione si riversano e intersecano i due meta-racconti precedenti.
Lyotard, a questo punto, identifica un cortocircuito per ogni narrazione proposta: nel caso del meta-racconto idealista, partendo dall’assunto hegeliano: «tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale», e cioè che la storia si evolva verso un progressivo identificarsi della realtà coi fatti, e che ogni Male (vedi le guerre mondiali) sia funzionale al Bene collettivo e quindi, in un certo senso, provvidenziale, quest’ottimismo storico è stato confutato dal Male disfunzionale dei campi di sterminio; il meta-racconto marxista si è schiantato contro le derive del comunismo reale, mentre quello illuminista contro le asperità di una scienza che desta più problemi, soprattutto etici, di quelli che risolve.
Questi meta-racconti, o grandi narrazioni, non si limitavano ad organizzare il pensiero e a creare schieramenti, ma istituivano un ponte fra passato e futuro attraverso il meccanismo della legittimazione, e nel momento in cui sono venuti meno, la nuova razionalità postmoderna si è frantumata in mille saperi senza alcuna pretesa universale; anche la scienza ha perso la sua ambizione panica fornendo solo risposte parziali e temporalmente limitate, secondo il celebre principio di falsificabilità delle ipotesi di Popper.
In fin dei conti, Lyotard donava alla locuzione «postmodernismo» un’accezione positiva, nei termini di un processo di liberazione individuale dagli ismi novecenteschi e dai principi di autorità centrale ma, secondo molti pensatori di fine secolo (come i teorici del pensiero debole), questo avrebbe dischiuso le porte a un irrazionalismo crescente e deleterio.
Se leggiamo, ad esempio, Vattimo (venuto a mancare non molto tempo fa), il postmodernismo non coinciderebbe con l’irrazionalismo e la pluralità arbitraria, e nemmeno con la fine delle grandi narrazioni novecentesche, ma sarebbe anch’esso un meta-racconto sulla fine della modernità: acutamente, il filosofo piemontese fa l’esempio dei regimi post-coloniali che non si configurano come valide alternative solo perché autoctoni, se poi ricreano dinamiche militari o centraliste peggiori dei precedenti governi occidentali.
Il «pensiero debole», teorizzato negli Anni Ottanta, proprio da Vattimo e da altri filosofi italiani, si fonda sulla frantumazione del soggetto della psicoanalisi, e sul crollo del pensiero forte in tutte le sue declinazioni, ma questa nuova concezione di storia che ha perso i suoi assoluti e non si evolve più dal Primitivo alla Modernità, non deve per forza identificarsi col caos postmodernista, ma può riconoscersi in un nuovo orizzonte narrativo e normativo, dialogico e flessibile.
In fin dei conti, anche nel Cristianesimo, l’incarnazione divina (chenosi) è un abbassamento divino verso gli uomini, non definiti più «sudditi» ma «amici», un passaggio dal pensiero forte dell’Antico Testamento a quello evangelico «debole»; un’altra rappresentazione, o deviazione patologica, di postmodernismo sono i fondamentalismi e/o localismi, intesi come rigurgito reazionario degli assoluti al pluralismo imperante, anacronistiche vestigia del pensiero forte che non si rassegna alla fluidità.
Secondo il critico e politologo Frederic Jameson, il postmodernismo sarebbe invece «la logica culturale del tardo capitalismo», e cioè la sovrastruttura teorica dell’attuale economia di mercato, tesi che troverebbe il suo fondamento anche nel passato politico di Lyotard, marxista deluso ed ex membro di Socialismo e Barbarie: secondo questa analisi, il paradigma postmoderno, dietro l’edonismo della liberazione individuale da ogni condizionamento, celebrerebbe il mansueto nichilismo che, distruggendo ogni possibile senso o prospettiva futura, legittimerebbe il profitto come unico generatore di valore simbolico.
Le ultime e più intelligenti correnti filosofiche si riconoscono piuttosto nel concetto di neo-modernismo, inteso come rifondazione della modernità secondo i nuovi parametri e la rivoluzione digitale in atto, interpretando il postmodernismo come una sorta di parentesi o horror vacui del pensiero, in grado comunque di generare interessanti esperimenti artistici, letterari e cinematografici, ma in uno scenario talmente ingolosito dalla Fine da dimenticare la natura essenzialmente circolare di ogni processo epistemologico.