Per essere felici viviamo nascosti

da | Set 25, 2023 | MONDOVISIONE

Un’antica favola francese del Settecento narra di un piccolo grillo che ammirava e forse invidiava la bellezza di una farfalla dai colori vivaci finché un giorno, dopo averla seguita, non vide un gruppo di bambini catturarla e ucciderla, così pronunciò la frase: «Pour être heureux vivons cachés» (per essere felici viviamo nascosti), divenuta ormai idiomatica nella cultura francese, soprattutto per le celebrità braccate dai paparazzi.

Col suo «Caché», nascosto,  in italiano «Niente da nascondere», che ha vinto il premio per la miglior regia al cinquantottesimo festival di Cannes nel 2005, il regista tedesco naturalizzato austriaco Michael Haneke torna a flirtare con un suo grande classico, passato e presente, e cioè la rappresentazione video e la correlata ingannevolezza dell’immagine, coinvolgendo due mostri sacri del cinema francese come Daniel Auteuil, col profilo ammaccato da maschera del Noir, e la sempre convincente Juliette Binoche.

Stranamente, per una volta, la trasposizione del titolo in italiano, solitamente fallimentare e intrisa di provincialismo, ricrea l’ambiguità di quello hanekiano e, nonostante alcuni critici abbiano sottolineato l’ideologismo dietro la pellicola, con gli attori ridotti a mere funzioni della tesi registica, al contrario «Cachè» raggiunge il suo obiettivo (anche come riproducibilità tecnica), perché agisce simultaneamente su più livelli.

TRAMA

George e Anna Laurent sono una coppia dell’alta borghesia parigina che vive col figlio dodicenne Pierrot in un bel quartiere residenziale, entrambi operatori culturali, lui giornalista che cura una rubrica televisiva sui libri e lei collaboratrice di una casa editrice, che le lascia molto tempo libero a disposizione.

La loro vita tranquilla, equamente suddivisa fra il lavoro e le cene con gli amici nell’appartamento orgogliosamente tappezzato di libri, viene sconvolta da una serie di VHS anonimi recapitati dapprima allo stesso indirizzo e poi alla redazione di George: i video, che inizialmente si limitano all’inquadratura fissa della casa dei due protagonisti e poi ritraggono quella d’infanzia di lui, si accompagnano agli inquietanti disegni di un bambino che sanguina e di un gallo con la testa mozzata.

L’indifferenza della polizia fino al presunto rapimento di Pierrot, che poi si scoprirà essere semplicemente andato da un amico senza aver prima avvisato i genitori, precipitano George e Anne in una spirale di bugie e recriminazioni, soprattutto quando l’uomo le confessa i propri sospetti sul presunto autore delle riprese.

La mancata adozione di un bambino algerino da parte della famiglia del giornalista, a seguito delle sanguinose repressioni della polizia francese risalenti al 1961, che avevano privato il ragazzo dei propri genitori, domestici in casa Laurent e uccisi nei tafferugli, non voluta proprio da George, potrebbero essere all’origine di quella tardiva vendetta di cattivo gusto.

L’inesistente rapporto fra Pierrot e i suoi genitori, al di là della retorica borghese, il possibile adulterio di Anne con l’amico di famiglia Pierre, e le indagini solitarie di George che culminano in un finale tragico e nel confronto fra l’uomo e il giovane figlio del possibile autore dei video, anticipano l’epilogo che vede l’incontro di Pierrot proprio con il quasi coetaneo di origini algerine, di fronte alla scuola del primo, mentre conversano amabilmente come se si conoscessero da tempo.

Il finale aperto (Haneke ha fatto leggere il copione ai due ragazzi che ne hanno recitato le battute non sapendo che il campo lungo ne avrebbe reso inudibili le parole, presta il fianco a molteplici e contraddittorie interpretazioni, ma questo non fa che aumentare il fascino di un’opera che tocca molti nervi scoperti della sensibilità occidentale, e della storia francese.

RIMOZIONE E COLPA

«Non si sa cosa si è disposti a fare pur di proteggere tutto quello che si ha, vero?», viene detto a metà film, e in effetti la forza, miope e in un certo senso reazionaria, che George mostra nel tentativo di salvaguardare i propri cari, nasconde (e mai termine fu più appropriato) solo un meschino spirito di autoconservazione edificato su un gigantesco rimosso collettivo, e cioè il passato coloniale del proprio paese.

Non è solo il vissuto personale dell’uomo a riemergere, carsicamente, attraverso dei VHS, ma il senso di colpa di un Occidente che ha costruito il proprio benessere sul sacrificio di intere popolazioni che ora fanno sentire la propria voce in molti, differenti, modi. La particolarità del lungometraggio di Haneke, è quella di utilizzare il potere ricattatorio delle immagini, più che quello delle parole, e le riprese voyeristiche, prima dei coniugi Laurent e poi della casa d’infanzia di George, fino all’abitazione, nelle banlieux parigine, del possibile autore dei video, contrastano col fatuo montaggio nella redazione del Nostro, intento a tagliare e cucire interviste ad uso e consumo di un pubblico annoiato, come se esistessero due tipologie di rappresentazione della realtà, che diventano tre se si ascoltano quelle televisive in sottofondo che raccontano dei conflitti in Medioriente.

Haneke cura soggetto, sceneggiatura e regia di questa personale versione de «Lo Straniero» di Camus in chiave post-moderna, e gioca, come nel precedente «Benny’s Video» e nel successivo «Happy Ending», con la violenza delle, e dietro, le immagini, non limitandosi a mostrare l’ipocrisia della piccola borghesia parigina, e per estensione occidentale, e nemmeno la pericolosità paranoica di una società a circuito chiuso in cui il mito della sicurezza può facilmente rovesciarsi in controllo totale ma, con l’invio seriale dei video, corredati d’immagini di morte, mima le tecniche di intimidazione propagandistica dei fondamentalismi, anticipando di fatto le luttuose esecuzioni a regia dell’Isis.

Film che sarebbe piaciuto all’Houellebecq di «Sottomissione», «Niente da nascondere», coi suoi campi lunghi improvvisamente accelerati o rimandati indietro dal videoregistratore a testine, spiazza lo spettatore che soffre la cattiva coscienza del protagonista ripartita su tre piani di realtà: la vita vissuta, quella ripresa e quella sognata, attraverso incubi che sembrano improvvisi flashback di traumi irrisolti.

L’inevitabile pessimismo che si cela dietro la pellicola, imperniato sulla reticenza di George prima ad ammettere le proprie colpe e poi a cercare un dialogo onesto con le persone cui ha fatto, volontariamente o involontariamente,  del male, diviene la metafora di un dialogo ormai impossibile fra l’Occidente coloniale e imperialista e le sue vittime, ormai definitivamente cristallizzato nella moviolata nemesi delle decollazioni islamiche o negli esodi sapientemente filmati da Salgado, segno di un’impotenza politica e antropologica mutata in sguardo, rapida e incosciente estrazione dello smartphone di fronte al tamponamento a catena della contemporaneità.

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