Sono ormai molti anni che Yorgos Lanthimos, regista greco naturalizzato ad Hollywood, ci delizia con lungometraggi grotteschi, a tratti eccessivi, e sicuramente disturbanti, ed anche se lui ha sempre rifiutato il trademark di provocatore, la forza del suo cinema risiede proprio nello scandalo che ogni sua pellicola è in grado di produrre.
Ora che il suo ultimo film, «Povere Creature» (uscirà in autunno in Italia) ha vinto il leone d’oro al Festival del Cinema di Venezia, ha senso riscoprire il suo primo lavoro dopo la co-regia del 2001 con Lakis Lazopoulos «Il mio migliore amico», e cioè l’asettico «Kinetta», un’opera seminale che contiene a livello larvale le principali coordinate della sua drammaturgia, nonostante sia stato da molti considerato autocompiaciuto, imperfetto e troppo formale.
«O Kalyteros nou filos» (Il mio migliore amico) era una commedia brillante con un ottimo ritmo che ottenne un discreto successo commerciale, ma quando Kinetta debuttò a Toronto si capì subito che Lanthimos aveva ben altre idee per la propria carriera cinematografica: quando arriverà la consacrazione intellettuale con «Dogtooth» (quella economica lo investirà con «The Lobster», l’inizio della crasi a stelle e strisce) si parlerà di Greek Weird Wave, e cioè quel movimento antirealista che soprattutto nella settima arte trasfigurerà la crisi politica ed economica della nazione in un immaginario surreale e pittoresco.
TRAMA
«Kinetta» è il nome di un’isola ellenica, fra Atene e Corinto, famosa per le spiagge sassose e il turismo di massa, ma è anche una tipologia di macchina da presa ed è su questa prima ambivalenza che Lanthimos costruisce una (non) trama essenzialmente fondata sul voyerismo, al punto che abbondano i piani-sequenza e le inquadrature a mano volutamente fuori fuoco e traballanti.
Un impiegato di uno studio fotografico, operatore cinematografico dilettante, e una cameriera, vengono ingaggiati da un poliziotto in borghese, per interpretare le colluttazioni e i delitti di un serial killer ancora in circolazione, ma nonostante le istruzioni dell’uomo siano molto dettagliate, si intuisce che a guidare le performances del trio non è la smania di giustizia, ma il vuoto e la fascinazione per la morte.
L’agente di polizia, che sembra più un burocrate, seduce delle donne, principalmente slave, in cambio del permesso di soggiorno e coinvolge anche loro nelle sue assurde (in senso teatrale) pantomime, che ricordano un po’ i siparietti del duo Bolkan/Volontè su «Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto», ma senza ironia; appassionato di go-kart e Bmw, l’uomo finirà per acquistarne una che «non può permettersi», solo perché il commesso della concessionaria gli dirà che quello è il vero lasciapassare per una vita diversa, ma in una scena emblematica, dopo aver parcheggiato il nuovo Bmw nero fiammante sul belvedere di una scogliera, ci girerà intorno consapevole che nulla di essenziale è cambiato nella sua esistenza.
Il fotografo (Aris Servetalis: lo ritroveremo anche in «Alps»), col volto da gesuita e lo sguardo allucinato di un quadro di El Greco, finirà con l’innamorarsi della cameriera, salvandola da un tentato suicidio e prendendosi cura di lei, ma senza mai rinunciare alla propria vocazione scopofila, mentre lei cadrà nella spirale imitativa della perfetta vittima, provando allo specchio le possibili morti del misterioso omicida.
Protagonista assoluta del film è proprio l’isola di Kinetta durante la stagione invernale, svuotata di turisti, triste e fredda, coi cieli lividi e i brutti alberghi di cemento che rimandano all’estetica brutalista, il perfetto scenario per delle morti, reali o solo rappresentate, e gerbido spaccato di una Grecia inedita, cupa e luttuosa, più simile a un paesaggio scandinavo o coreano.
Lo stesso Lanthimos ha dichiarato di non sapere bene di cosa parli questo film e sin dall’inizio, col fotografo di fronte a un incidente che poi raggiunge a piedi un cimitero, si capisce quanto surrealista sia questa pellicola, ma del surrealismo di matrice Buñuel, e cioè molto semplice e persino scolastico, ma proprio per questo più disturbante.
INCOMUNICABILITÁ
L’assenza di dialoghi e spiegazioni, che svuota il contenitore noir di qualsiasi meccanismo ispettivo, ci trascina nell’universo di Antonioni, dove il silenzio regna sovrano sull’alienazione e solo le mimesi della morte e della violenza illudono i protagonisti di poter agire sulla realtà, ma anche le istruzioni urlate dal poliziotto (e qui la mancanza del doppiaggio rende il tutto ancor più straniante) non riescono a strappare il trio al vuoto di esistenze macchinali e irrisolte, «altre» rispetto ai normali ingranaggi sociali ma anche estranee alle più semplici pulsioni vitaliste poiché, nonostante abbondino i nudi e le occasioni di promiscuità, i corpi non si toccano mai se non nella stilizzata violenza delle aggressioni.
Antonioni abbiamo detto, ma anche il Cronenberg di «Crash o il Wenders de «Lo stato delle cose» (soprattutto nei molti momenti di stasi), per una pellicola d’esordio ambiziosa e forse pretenziosa, pauperistica ai limiti dell’amatoriale e quasi esclusivamente priva di colonna sonora, ma con un grande classico del cinema lanthimosiano a venire: il ripetersi rigoroso di regole insensate che vorrebbero arginare l’assoluta mancanza di significato dell’esistenza, finendo paradossalmente con l’accrescerne la vacuità.
«Kinetta» è troppo lungo e forse la volontà registica, rispetto alle pellicole successive, finisce col soffocare quella dei personaggi, ma fra le pieghe del silenzio insulare, dietro i chirurgici e imbarazzati dettagli di visi e corpi che impallano volutamente la rassicurante visione d’insieme, si insinua quel dubbio che secondo Calasso è nemico dei due grandi archetipi della post-modernità, e cioè il turismo e la pornografia: e non è un caso che il sesso sia bandito da Kinetta e che il turismo di massa non sia ancora arrivato ad infestare l’isola.