Correva l’anno 1998 quando un giovane Thomas Vinterberg, amico e in parte allievo del connazionale Lars Von Trier, realizzava il suo secondo lungometraggio e il primo film in assoluto a rispettare il decalogo del manifesto Dogma 95, stilato proprio dai due danesi nel 1995.
La pellicola, che vinse il gran premio della giuria al cinquantunesimo Festival di Cannes, era l’emblema della famiglia disfunzionale e un vero e proprio assalto all’ipocrisia dei valori alto-borghesi ma l’incredibile qualità recitativa e le scelte estetiche del regista ne fecero sin da subito un cult, nonostante proprio nella messa in scena si intuisse qualcosa di derivativo.
La fotografia itterica à la Trier, la gestione degli spazi che ricorda Buñuel e l’iconoclastia ben confezionata degna di un Visconti fecero di «Festen-Festa in Famiglia» una pietra miliare del Dogma danese, ma anche un ottimo esempio di cinema-pastiche in cui confluiscono molti ingredienti, ma senza snaturare il gusto d’insieme delle portate.
TRAMA
Per il sessantesimo compleanno del patriarca e industriale Helge, schiere di parenti e amici vengono invitati nella sontuosa residenza rurale di famiglia, in realtà uno storico albergo riadattato ad abitazione privata, e mentre si comincia a bere forte già nel primo pomeriggio, i tre figli raggiungono la casa dove sono cresciuti, e dalla quale sono tutti più o meno fuggiti, presentando i propri omaggi al genitore e alla madre.
Sia Christian, il primogenito, che Michael, sembrano aver fatto fortuna in città, mentre la più estroversa Helene crea un piccolo scandalo invitando a cena il suo nuovo compagno afroamericano: la compassata tristezza di Christian, che sembra nutrire verso il padre un remoto rancore, si alterna alla venerazione di Michael, alcolizzato e razzista, violento e mediocre, mentre è da Helene che apprendiamo del suicidio, avvenuto pochi mesi prima, di Linda, la sorella gemella di Christian.
Proprio quest’ultimo sarà chiamato a tenere il discorso inaugurale del primo brindisi e quando lo farà, lasciando tintinnare il coltello sul bicchiere come da migliore tradizione, la sua rivelazione sarà un pugno nello stomaco per tutti i presenti.
Lo chef della serata, storico amico di Christian, farà nascondere alle cameriere le chiavi delle auto dei commensali, per permettere al primogenito di andare fino in fondo nella sua feroce agnizione e quando, al secondo brindisi egli non solo ribadirà gli abusi sessuali subiti da lui e Linda da parte del padre quand’erano molto piccoli, ma anche l’indiretta complicità di una madre troppo debole per ribellarsi e denunciare l’accaduto, la festa degenererà in un incubo di violenza, etilismo e imbarazzo malcelato.
Pestato e allontanato, Christian troverà il modo di rientrare alla cena mentre Michael, dopo essersi esibito in una canzona razzista ai danni del compagno di colore della sorella, finirà col capire che i «deliri» di suo fratello sono più che fondati, scagliandosi sul finale proprio contro Helge stesso.
La lettera di Linda, rinvenuta e confermata da Helene, verrà letta a una platea ormai annichilita ma incapace di sottrarsi alla cena gourmet e al raffinato vino servito da una brigata non più agli ordini dell’ormai destituito patriarca.
NON C’E’ FESTA SENZA SANGUE
La grandeur di Festen sta nell’inscrivere un’alienante storia di abusi privati nel più ampio arazzo della decadenza borghese, e lo si capisce da come tutti i protagonisti, anche i gregari, siano potenziali adulteri o alcolizzati, bugiardi cronici o corrotti fino al midollo, eppure pronti a sollevare il bicchiere intonando filastrocche della tradizione popolare, viziati interpreti di una ricchezza immeritata, ereditaria e dal taglio incestuoso.
Il nonno ubriaco e affetto da demenza senile che continua a raccontare lo stesso aneddoto all’infinito, alternandolo a canzoni da caserma, ma anche l’impassibilità inamidata della madre, pronta a difendere l’indifendibile fino alla fine, per non parlare dell’amico di famiglia di origini tedesche, più interessato a salvaguardare l’etichetta e l’ordine dei brindisi, che non a vagliare la nemesi in atto, sono l’espressione di una tradizione patriarcale e marcia, fondata sull’omertà e sul terrore, sulla connivenza e sull’opportunismo.
Vinterberg sembra voler distruggere in un sol colpo la presunta superiorità morale dei paesi scandinavi (da sempre all’avanguardia su tutto), denunciandone le piaghe sociali e i meccanismi di rimozione che si annidano proprio nelle famiglie più potenti, ricordandoci attraverso il razzismo di Michael, quanto i paesi nordici abbiano a lungo flirtato col nazismo (e in questo un illustre precedente è la trilogia di Millenium).
Il Dogma 95 del duo Vinterberg-Von Trier è presto servito, con i lunghi piano-sequenza e la macchina da presa a mano, il rifiuto dei flashback e del bianco e nero, nessun filtro o lavoro ottico, deriva di genere o superficialità hollywoodiana, zero accrediti al regista ma solo una carta-pergamena inziale che attesta l’appartenenza della pellicola al movimento altresì noto come «Voto di castità».
Rileggendo oggi, a quasi trent’anni di distanza, gli obiettivi programmatici di quel manifesto che si scagliava contro la cosmesi e le illusioni che un cinema individualista avrebbe inevitabilmente prodotto, a causa delle irreversibili innovazioni tecnologiche in atto, opponendogli una cinematografia avanguardista e quasi militare nel suo rifiuto del relativismo, e del primato dell’introspezione sulla storia estratta viva dalla scena e dalle immagini, riesce molto difficile non ammirare la capacità profetica di questi, terribili, danesi.
Riguardare questo film nel suo venticinquesimo anniversario, e paragonarlo ai contemporanei tentativi di satira interclassista (su tutti il pur stimabile Triangle of Sadness), ci rende consapevoli di quanto Festen sia riuscito ad andare fino in fondo, forse proprio grazie al suo dogmatismo, sfuggendo a qualsiasi riduzione di complessità, banale retorica o rassicurante manicheismo: il padre non muore perché, come il padrone di «Novecento» di Bertolucci, deve restare vivo per ricordare a tutti che è morto.