(IN)Sicurezza sul lavoro: formazione o deformazione professionale?

da | Set 13, 2023 | IN PRIMO PIANO

Nonostante l’intelligenza artificiale e le nuove frontiere tecnologiche stiano ridisegnando il paradigma stesso del concetto di lavoro, gli infortuni e i decessi continuano a crescere facendo della sicurezza uno dei mantra del nuovo millennio, eppure al di là della retorica, ancora velatamente intrisa di ideologie novecentesche, la sperequazione territoriale, l’obsolescenza dei macchinari e il dominio della velocità d’azione, fanno dell’incolumità dei lavoratori uno dei fattori oggettivamente meno tutelati in assoluto.

A tal proposito, abbiamo raggiunto telefonicamente G.R., addetta alla sicurezza dal 2005 di una grande multinazionale che ha sede in Emilia-Romagna, per ascoltare dalla viva voce di chi se ne occupa meriti e demeriti di un settore che, come impatto etico, potrebbe affiancarsi alle fonti rinnovabili e alla cura degli spazi verdi.

IMS: Salve G. Dall’incidente ferroviario di Brandizzo, la parola chiave pronunciata da quasi tutti i nostri colleghi è stata: manutenzione.

GR: Per ciò che concerne le ferrovie va ricordato che fino a non molto tempo fa la manutenzione era estesa, ma da quando ad occuparsene è un ente privato a partecipazione pubblica le cose vanno meno bene. In generale, si tratta di una pratica che si serve spesso di appalti e subappalti, che porta pochi guadagni, non sempre si serve dell’adeguata tecnologia e viene ancora percepita più come un costo che come un dovere etico o una risorsa. Si finisce spesso con l’affidarla (in)direttamente al singolo lavoratore, laddove invece dovrebbe interessare tutti i livelli, dal primo dirigente all’ultimo subappaltatore.

IMS: Come si articola di solito la manutenzione?

GR: Quando un’azienda va ad operare una manutenzione in un’altra azienda si crea comunque un’interferenza e quindi esistono dei passaggi obbligati da seguire. Fondamentali sono il DUVRI (Documento Unico Valutazione Rischio Interferenza), più tutta la modulistica relativa ai cantieri. A carico del committente, il DUVRI valuta tutti i rischi e le misure di prevenzione per le aziende, per evitare che durante la manutenzione gli operai di entrambe le strutture possano interferire (nell’etimo) gli uni con gli altri. Il punto è che spesso i dettami del DUVRI sono troppo generici, o restano solo sulla carta, per non parlare del fatto che non sempre i preposti controllano che le misure vengano rispettate, misure che in ogni caso restano insufficienti a fronte delle infinite casistiche di rischio possibili.

IMS: Il DUVRI è l’unico strumento in termini di manutenzione aziendale?

GR: No, c’è anche il POS (Piano Operativo di Sicurezza), che deve essere redatto per ogni cantiere e che, se sussiste, esclude il DUVRI: se non ci sono cantieri, temporanei o mobili, il POS non è obbligatorio e non lo è neanche per i lavoratori autonomi, per le imprese pubbliche o in caso di appalto pubblico o in presenza di una sola impresa. È il datore di lavoro che lo redige e contiene i dati identificativi dell’impresa, le mansioni e la descrizione delle attività, ponteggi, macchinari o sostanze pericolose utilizzate, la valutazione dei rischi potenziali, il rapporto di valutazione del rumore, le misure di prevenzione/protezione, la procedure richieste dal PSC (Piano di Sicurezza e Coordinamento), l’organizzazione complessiva della sicurezza, l’elenco dei dispositivi di protezione e la documentazione sulla formazione dei lavoratori impiegati nel cantiere.

IMS: Come si agisce per limitare i rischi?

GR: Ci si muove su tre coordinate. La prima, quella tecnologica (dove la manutenzione è più che fondamentale), pertiene al blocco macchine e a tutti i dispositivi meccanici di sicurezza, che hanno ovviamente bisogno di controlli periodici e che, in caso di obsolescenza, dovrebbero essere sostituiti. La seconda è quella organizzativa, e qui il numero dei dipendenti diviene fondamentale, così come la figura cruciale e critica del preposto, che per legge ha una specifica formazione e stipendio, e se non è in sede viene spesso sostituito da un «preposto di fatto».

IMS: Perché si tratta di una figura critica?

GR: Intanto perché, come il datore di lavoro, risponde penalmente delle proprie azioni, e poi perché vive il dualismo di dover perseguire determinati obiettivi e al tempo stesso di doversi occupare di sicurezza. Più che a seguito di un’adeguata e istituzionale formazione, il preposto lo diventa per meriti professionali, capacità ed esperienza, e il suo ruolo diviene ancor più centrale nelle piccole aziende, che tendono a tagliare i costi di manutenzione per sopravvivere e restare competitive sul mercato.

IMS: La terza coordinata per limitare i rischi?

GR: Siamo nell’ambito procedurale, quindi iter e protocolli, ed io qui faccio sempre l’esempio dell’autorizzazione all’atterraggio data dalla torre di controllo degli aeroporti. Prima di utilizzare un’attrezzatura, tutti i dispositivi di sicurezza devono essere «in place», soprattutto gli interlocks, e cioè i dispositivi di bloccaggio, anche se spesso questo controllo preliminare viene bypassato per guadagnare tempo.

IMS: Quali sono le maggiori criticità nell’ambito della sicurezza sul lavoro?

GR: Gli infortuni del sommerso, che oltretutto sfuggono alle statistiche, la popolazione lavorativa che sta invecchiando e che quindi necessiterebbe di maggiori attenzioni, ma soprattutto gli effetti della crisi che hanno portato a risparmiare sui DPI (dispositivi di protezione individuale), come caschi, scarpe antinfortunistiche, imbracature e via dicendo.

IMS: Chi esegue i controlli?

GR: In base al D.lgs 81 del 2008, con successive modifiche e integrazioni, che è una vera e propria Bibbia della sicurezza sul lavoro, i controlli spettano al datore di lavoro, al responsabile del servizio prevenzione e protezione, che valuta rischi e contromisure, e che può essere interno o estero in base alla classe di rischio o al numero di persone, al preposto, e a tutti i dirigenti.

IMS: Quali sono i principali problemi italiani in questo settore?

GR: La limatura dei costi, data dalla crisi e dal malcostume di pensare alla sicurezza come a una spesa o a uno spreco di tempo, ma anche le tecnologie vecchie o inadeguate, il subappalto, perché costa meno affidarsi ad aziende terze che occuparsene internamente, e infine ma non in ordine di importanza, la filosofia del condono che ha invaso anche questo campo secondo l’adagio: «io non mi metto in regola, lo faccio solo se mi arrivano dei controlli e dopo pago le eventuali sanzioni.»

IMS: E la politica in tutto questo?

GR: Ha enormi responsabilità perché, in barba all’articolo1, non è vero che l’Italia è un sistema fondato sul lavoro. I costi e la tassazione sono troppo alti, le piccole aziende faticano a starci dentro e spesso quelle più grandi stornano i fondi necessari alla sicurezza nel marketing, nella filantropia o nell’organizzazione di eventi di sicuro appeal. Va anche detto che il rischio omertà/mobbing è molto alto per chi denuncia malfunzionamenti, soprattutto per i lavori a termine, poco qualificati, e per le realtà minori, e che gli standard UE sono molto alti ma non hanno un unico focus.

IMS: Lo scenario è scoraggiante.

GR: Non sempre. Negli ultimi anni, ad esempio, l’INAIL ha erogato premi per le piccole e medie imprese che fanno upgrade per sicurezza e salute, ma io credo che la soluzione passi attraverso la formazione/educazione del singolo lavoratore che può e deve essere parte attiva nel processo di sicurezza, interfacciandosi anche coi sindacati e coi dirigenti. Si tratta di una riprogrammazione culturale della mentalità operativa che necessita di tempo, ma ogni tipo di cambiamento strutturale ha bisogno in fin dei conti di cicli lunghi e suggestioni concettuali. 

Non è tassando o tagliando, e nemmeno forzando ancora e ancora i ritmi produttivi, che renderemo i nostri luoghi di lavoro più sani e più sicuri.

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