Non è passato molto tempo dall’(in)evitabile sciagura ferroviaria di Brandizzo, quando una squadra di cinque operai e un capocantiere della Sigifer di Borgo Vercelli si sono trovati a sostituire sette metri di binario sulla linea regionale Milano-Torino, a circa 25 chilometri dal capoluogo piemontese.
Arrivati intorno alle 23, gli uomini hanno indossato tute e caschi protettivi iniziando a preparare l’attrezzatura per l’intervento di manutenzione straordinaria che è cominciato alle 23 40, ma appena sette minuti dopo sono stati travolti da un treno in trasferimento (una locomotiva e 11 vagoni vuoti) morendo sul colpo tutti e cinque, tranne il caposquadra che è riuscito a saltare di lato e la «scorta dritta», l’agente di scorta di Rfi, che doveva firmare il modulo per l’apertura del cantiere dopo aver ricevuto il nullaosta dalla dirigente dell’ufficio movimenti di Chivasso.
Proprio lei, la dirigente dell’ufficio movimenti, Enza Rapaci, ha intimato di «non procedere coi lavori» in ben due conversazioni, delle tre telefonate ricevute in 26 minuti, e queste preziose registrazioni sono fra gli elementi probatori più importanti acquisiti dalla procura di Ivrea, prima di consegnare gli avvisi di garanzia ai due superstiti del disastro.
Il nodo centrale delle investigazioni risiede nel fatto che la notte del 30 agosto quegli operai non avrebbero dovuto trovarsi lì, perché privi di qualsiasi autorizzazione scritta a procedere, ma nonostante questo, proprio l’agente di scorta ha dato il via verbalmente ai lavori, ignorando anche gli Alt della Repaci (di fatto, non indagata): fondamentale in tal senso è quello pronunciato fra le 23 26 e le 23 29 dove si sente la donna dire: «State fermi. Deve ancora passare un treno, che è in ritardo. Aggiorniamoci dopo.»
Nessuna responsabilità è stata attribuita alla Repaci e nemmeno ai due macchinisti del convoglio che, avendo avuto il segnale verde, non hanno visto nel buio pesto le vittime, travolte a più di cento chilometri orari. La procedura standard prevede che il cantiere venga aperto solo dopo l’ok del responsabile dell’ufficio di Chivasso all’agente di scorta che, dopo aver firmato l’apposito modulo di apertura dei lavori, dà il via libera al capocantiere; inoltre, sui binari è previsto anche il Cdb Circuiti di binario, un dispositivo elettrico di sicurezza il cui scopo è quello di segnalare all’ufficio preposto la presenza di treni o di altro materiale sulla linea.
Nel caso specifico di Brandizzo, il caposquadra e la scorta dritta hanno aperto il cantiere senza il nullaosta di Chivasso, anche se il secondo ha dichiarato: «pensavo che il treno fosse già passato», ma tralasciando le specifiche responsabilità sul terribile incidente, al vaglio delle autorità, ed anche l’incredibile precedente del 29 marzo 1956, quando sulla stessa linea furono travolti due operai di 35 e 36 anni, l’atroce sospetto (confermato da molti ex dipendenti della Sigifer) è che la normale prassi sia quella di ignorare la procedura di sicurezza, per portarsi avanti col lavoro.
È questa l’autorevole ipotesi di Alessandro Genovesi, segretario generale di Fillea-Cgil, il sindacato degli edili, sentito da Repubblica lo scorso 3 settembre, il quale ha affermato che la strage sarebbe da imputarsi a «una logica di business di Rfi, che nel tempo ha ridotto i tempi delle interruzioni per manutenzione», definendo i morti di Brandizzo «omicidi sul lavoro […] trasformati in centometristi che devono correre il più velocemente possibile per finire i lavori ed evitare di essere travolti da un treno».
Il vulnus risiederebbe nello stesso business plan di Rfi che, dal 2018 al 2027, prevede un considerevole aumento di traffico, sia di merci che di persone, col relativo incremento di interventi e manutenzione, ma è logico che questo produca un cortocircuito in quanto con più treni in movimento ci sarà sempre meno tempo per le interruzioni necessarie ai lavori e ai controlli: basta pensare che, fino a qualche anno fa, per sostituire dieci metri di binario si lavorava sulle cinque ore, mentre oggi ci siamo ridotti a meno di tre.
Quanto accaduto a Brandizzo illumina la poco nobile prassi della manutenzione ferroviaria, vittima di appalti e subappalti che generano un nuovo sottoproletariato malpagato e poco formato, disposto a lavorare anche dieci ore di fila in discutibili condizioni di sicurezza, un sistema fallato anche da una tecnologia inadeguata visto che a fronte dell’alta velocità, che rappresenta il 25% della Rete, il restante 75% dei binari è decisamente obsoleto.
I numeri parlano chiaro, ed è da lì che si deve partire se si vuole intraprendere un’analisi complessa e integrata di tutte le variabili in gioco: dal 2018 ad oggi la manutenzione ferroviaria ha mietuto un infortunio grave ogni 57 giorni e un decesso ogni 115, morti e menomazioni figlie di errori umani, spesso grossolani, come quello del febbraio del 2020 nel Lodigiano, quando a un pezzo che serviva allo scambio difettato di un binario sono stati invertiti dei fili: a differenza della linea di difesa dei manager di Rfi, che scaricano sempre le colpe sugli operai, la frequenza degli incidenti dimostra che il problema è sistemico e generato dagli eccessivi carichi di lavoro da sbrigare in poco tempo, e senza il salvifico pulsantone che permetterebbe di staccare l’interruttore e isolare il tratto di binario interessato ai lavori.
La proposta, invocata sia da M5s che da FdI, di dedicare alle vittime di Brandizzo i funerali di Stato, provocazione e scandalo sociale ma anche atto simbolico che tolga dall’anonimato questi eroi dell’ombra e dell’acciaio, è stata rifiutata dai famigliari stessi delle vittime che, probabilmente, dietro la volontà di seppellire da soli i propri cari, nascondono la sfiducia verso uno Stato assente che cerca di lettigimarsi attraverso strumentalizzazioni postume, intrise di una tardiva retorica e di un discutibile sensazionalismo.