Se è vero che il dibattito fra reddito di cittadinanza e salario minimo riempie le pagine dei maggiori quotidiani nazionali, è altrettanto vero che il lavoro sia diventato negli ultimi anni un laboratorio sociale e antropologico che da un lato riflette e amplifica le velocissime innovazioni tecnologico-digitali, dall’altro resta imbrigliato in luoghi comuni anacronistici e a volte dannosi.
È un fatto che, secondo i dati OCSE 2022, tra il 1991 e il 2021 il livello medio degli stipendi in Italia sia cresciuto di appena lo 0,36%, mentre in Francia e in Germania l’aumento è stato superiore al 30%, ed è altrettanto vero (dati della Confederazione dei Sindacati Europei) che da noi nel 2022 il margine operativo lordo reale è cresciuto appena dello 0,8%, mentre gli stipendi sono diminuiti del 2,1%.
Stipendi bassi, sia nel settore pubblico che privato, sono sinonimo di scarsa produttività, fattori endemici al sistema economico italiano che, fra le altre cause, sono dovuti alla carenza delle competenze richieste e al sottoutilizzo di quelle già disponibili: non è un caso che il nostro sia l’unico paese del G7 che impiega la maggioranza dei suoi laureati in attività di routine, e non per le qualifiche maturate durante l’iter di studio.
La parola chiave è sempre stata, e resta, «formazione» (leggi didattica) che, soprattutto nell’ultimo decennio, ha dovuto tener conto di un mondo sempre più automatizzato e tecnologico, laddove lo stereotipo dell’operaio addetto alla catena di montaggio, senza o con poche qualifiche e destinato a una fatica a lungo andare debilitante, ha lasciato il posto alle moderne tute blu, informatizzate, abili nel problem solving e nel networking.
Nonostante sia sparita dall’immaginario collettivo e dal dibattito pubblico, o riemerga talvolta come strumento retorico nei monologhi di qualche nostalgico, la classe operaia italiana è invece viva e vegeta: la metalmeccanica dà attualmente lavoro a 1,6 milioni di persone ed è il settore che occupa più operai in assoluto, producendo circa l’8% del Pil (110 miliardi di euro) ed esportando beni per un valore di mercato di 200 miliardi (la metà dell’export), controbilanciando di fatto la nostra dipendenza estera da energie e comparto agroalimentare.
Eppure, la morfologia della classe operaia, che con buona pace di Elio Petri non è mai andata in Paradiso, si è profondamente modificata nel corso degli anni, al punto che se sul finire del Novecento alle assemblee sindacali si presentavano in mille, attualmente per mettere insieme cento persone occorrono sei o sette incontri, e questo per la parcellizzazione della categoria che un tempo votava a sinistra, scioperava in massa e ragionava come un unico e compatto organismo, e che invece adesso ha quasi smesso di votare, non si riconosce più nella politica (e forse nemmeno più nell’antipolitica), e si compatta solo nell’abbandono da parte delle istituzioni della centralità del lavoro.
L’avversario non c’è, quando agli imprenditori si sostituiscono i fondi di investimento interessati ai risultati finanziari e non alla restituzione sociale, o se c’è cede millimetri al costo di durissime battaglie, visto che negli ultimi tre anni la velocità di crescita dei profitti è cinque volte superiore a quella del costo del lavoro, e oltretutto l’inflazione ha causato una perdita del 7% dei salari.
Inoltre, a differenza delle rimostranze di fine secolo, imperniate quasi esclusivamente sull’aspetto economico, in caso di lavoro qualificato, con una paga buona e un’età media sotto i 40, si punta anche alla riduzione di orario a parità di retribuzione, per coltivare il tempo libero e avere maggiore cura di sé, e sotto questo punto di vista la tecnologia potrebbe (in linea teorica) aiutare molto, ma spesso si creano delle distorsioni.
Facciamo due esempi.
Molte aziende italiane, di grandi o medie dimensioni, prima della pandemia basavano parte della propria produzione sulle trasferte dei dipendenti più qualificati, ma dopo il lockdown, con l’esplosione dello smartworking e del controllo da remoto, le trasferte si sono limitate o in alcuni casi sono proprio sparite, creando considerevoli diminuzioni di stipendio, per non parlare del fatto che lavorare di meno a parità di paga, spesso ha significato una turnazione più tecnologicamente avanzata, ma anche più serrata e con un livello di stress talvolta inaccettabile.
Il 71% delle aziende italiane non trova il personale qualificato che le occorrerebbe, al punto che Federmeccanica sta creando dei corsi di formazione per i giovani, ma anche per riqualificare persone inoccupate o disoccupate, una formazione permanente che deve tener conto anche di altri fenomeni stratificati e complessi, come i tre milioni di connazionali che dopo la pandemia hanno deciso di cambiare lavoro o prepensionarsi.
Nel primo caso sono riusciti quasi tutti a trovarne un altro, a volte un semplice part-time o un lavoro a tempo determinato, frutto di riflessioni solitarie sulle precedenti e inique condizioni di lavoro, e sul recupero della propria dignità, spesso sacrificata alla paura del cambiamento o alla mitologia dell’immobilismo professionale tricolore, mentre nel secondo il rapporto fra lavoratori e pensionati, che negli anni Sessanta era di 6:1, è ora diventato 1:1.
L’aumento post-pandemico delle iscrizioni universitarie va incrociato col 29% dei lavoratori dipendenti che, dopo aver volontariamente abbandonato il proprio posto, non rientra nel successivo alle stesse condizioni, ma le cambia non (solo) in funzione di una migliore retribuzione ma di un più adeguato benessere sociale.
La digitalizzazione sta modificando e modificherà celermente il concetto stesso di lavoro (basta pensare alle proteste degli sceneggiatori di Hollywood per l’invasività dell’intelligenza artificiale nella propria professione), e se da un lato è plausibile pensare a una riduzione generale dei tempi e dei posti di lavoro, la rigidità dei salari e l’aumento della povertà rilanciano il ruolo dei sindacati e di una nuova coscienza di classe: il Quarto Stato deve liberarsi del Quarto Potere (tecnologico) se vuole tornare ad avanzare.