Se esistesse un Michel Houellebecq del cinema contemporaneo, ma sapientemente emulsionato ad Emmanuel Carrère, questi sarebbe di certo lo svedese Ruben Östlund, classe 1974 e già vincitore di due palme d’oro e di un Certain Regard a Cannes: nato come documentarista sciistico e abile provocatore sociale, Ruben registra ormai da anni la crisi del maschio bianco eterosessuale, con le nevrosi e le ansie da prestazione d’inizio millennio narrate in scenari a lui congeniali (Forza Maggiore), o in quelli che rappresentano già di per sé un ideale terreno socio-patologico, come l’arte contemporanea di «The Square».
Il trionfo francese dell’attesissimo «Triangle of Sadness», la porzione della fronte che va rilassata per ottenere il profilo più disteso possibile, secondo le istruzioni che il fotografo d’alta moda dà ai partecipanti del suo più che adamitico set agli inizi del film, vince perché è esattamente ciò che ci si aspettava dal regista scandinavo che però, con intelligenza conservativa, allinea l’asticella a una critica didascalica che più che scandalizzare la borghesia la rassicura attraverso le sue stesse maschere.
SIAMO TUTTI UGUALI!!!
Carl e Yaya sono due modelli e influencer cui viene regalata una lussuosa crociera che condivideranno con un magnate russo nel ramo dei fertilizzanti (Vendo merda!!), un ricchissimo e insicuro uomo di mezza età pronto a flirtare con chiunque, una donna tedesca affetta da ictus in grado di ripetere catatonicamente solo l’espressione «in den wolken» (tra le nuvole) e, a coronare altri viziatissimi stereotipi dell’alta borghesia, un equipaggio addestrato ad annuire a qualsiasi richiesta, anche la più surreale, pur di incassare la copiosa e sudata mancia finale.
Prima della crociera, parte centrale delle tre in cui è suddivisa la pellicola, assistiamo però alla scansione più interessante della storia e cioè quando Carl e Yaya litigano su chi dovrà pagare il conto al ristorante, scontro che intuiamo essere il vertice di ripetute manipolazioni da parte di lei, più pagata di lui ma assolutamente consapevole che in quanto modella smetterà di posare solo quando verrà mantenuta da un uomo desideroso di «sfoggiarla» in pubblico.
Fra ipocrite formule egualitarie lampeggianti su passarelle la cui prima fila non è di certo di facile appannaggio finanziario e l’indolenza di Carl, che non sembra granché interessato a migliorare la propria immagine per aderire a un mondo la cui superficie si rinnova continuamente, il transfert sulla nave da crociera sembra spostare il focus dall’attrito di matrice sessuale a quello interclassista.
L’immaterialità degli «omaggi» di (su) cui vive la coppia di influencer cozza contro i novecenteschi e più che tangibili liquami su cui ha costruito la propria ascesa il capitalista post-sovietico Dimitrij (un meraviglioso Zlatko Buric, già incontrato in «2012»), così come il marxismo del capitano alcolista (Woody Harrelson) stride con l’essenza stessa della crociera, che culmina in una delirante esplosione di feci e vomito durante una tempesta, mentre la cena gourmet prosegue traballando e azzimate settantenni alternano a crisi gastrointestinali, gli immancabili calici di champagne.
La terza parte, che racconta il naufragio degli ospiti insieme a parte dell’equipaggio su un’isola (presunta) deserta, è sicuramente la più debole del film poiché procede per stereotipi, rivelando come l’incapacità e l’inabilità dei ricchi li trasformi in pochissimo tempo da classe dominante a subalterna nei confronti di una semplice addetta alle pulizie, in grado però di pescare o saper accendere un fuoco, al punto da rovesciare la piramide di potere e istituendo una sorta di matriarcato insulare in cui il sesso diviene una moneta di scambio per la sussistenza.
Un Rolex per non passare la notte all’aperto diventa più che plausibile, così come subire l’umiliazione di un tradimento pur di gustare un po’ di polpo semicrudo, ed ecco che la pretesa uguaglianza sbandierata sin dall’inizio cade come le ultime vestigia di un patriarcato di maniera, di fatto fondato su strutture gerarchiche assolutamente fittizie e pregiudizievoli.
I riferimento cinematografici sono abbastanza chiari, dal recente «Parasite» alle esplosioni fecali e ai ribaltamenti di ruoli presenti ne «Grande Abbuffata» di Ferreri, per non parlare dell’idillio amoroso della coppia Giannini/Melato su «Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto» della Wertmuller, anche se a differenza di queste pietre miliari, «Triangle of Sadness» mette in scena più delle funzioni che dei personaggi, ignorando le recenti smarginature sociali che, anche per i cortocircuiti del politicamente corretto, rendono le suddivisioni socio-economiche molto più sfumate rispetto all’allegoria östlundiana.
Ciò che invece riesce a meraviglia al regista svedese sono l’ironia di alcune scene e i dialoghi, soprattutto quelli fra Dimitrij e il capitano Smith, ubriachi e seminudi, trincerati in cabina a citare Marx, o il suo contrario, attraverso l’interfono, neanche si trattasse di versetti biblici, mentre la nave procede in balia delle correnti e l’equipaggio sembra equamente suddiviso fra il tentativo di ricondurre alla ragione il proprio comandante, e quello di mantenere una parvenza di etichetta mentre tutto degenera gloriosamente.
Tutti, dall’oligarca obeso all’avvenente modello che sembrava nauseato dallo zeitgeist economico, passando attraverso l’algida Yaya o la donna di mezza età con l’ictus, fino all’inserviente orientale che si autoproclama «capitano» dell’isola, ognuna di queste immaginette a tesi, serve (in)direttamente la macchina ben oliata del capitalismo che si trasferisce con estrema facilità dalla crociera extra-lusso all’isola, obliterando l’incubo pasoliniano dello schiavo che non vuole liberare gli altri schiavi, ma diventare lui stesso il padrone, clonandone nevrosi e desideri.
D’altronde come scrive Max Fischer: «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del Capitalismo».
«Triangle of Sadness» vince ma non convince, dunque, ed anche se le sue eiezioni resteranno nella storia del cinema, l’immobilismo sociale lo riduce a una scadente critica dei rapporti di potere, priva della fluidità e delle contraddizioni che fanno della storia un mutevole arazzo e non il materializzarsi di più o meno coerenti teorie economiche.