Pochi giorni fa, a Belén, capitale dello stato di Parà, che «vanta» il più alto tasso di deforestazione del Brasile, si è tenuto l’appuntamento dell’Organizzazione del trattato di cooperazione amazzonica (Acto), definito dal presidente Lula «una pietra miliare» per salvare l’Amazzonia e i 45 milioni di persone che la abitano.
La bozza della Dichiarazione di Belén comincia con un monito, e cioè che se non si agisce subito si rischia il punto di non ritorno, ma anche con un obiettivo primario sottoscritto da tutti gli otto paesi del bacino amazzonico: l’azzeramento del taglio dissennato del bioma entro il 2030.
Eppure, nonostante l’impellenza di qualsiasi decisione a riguardo e il tono allarmistico di molte dichiarazioni ufficiali, la conferenza si è aperta con dei dati estremamente incoraggianti, visto che tra gennaio e luglio 2023 c’è stata una riduzione, in Brasile, della deforestazione del 42,5%, indice che sale al 60% se lo si confronta con lo stesso periodo del 2022.
A partecipare al summit di Belén sono stati, oltre a Brasile e Colombia, il Perù, la Bolivia e la Guyana, con rappresentanti di Ecuador e Suriname, ed emissari di Congo e Indonesia, che posseggono le altre due grandi foreste pluviali del mondo; assente Macron che sarebbe dovuto intervenire per la porzione francese della Guyana.
Gustavo Petro, primo premier di sinistra colombiano, che ha vinto le elezioni dichiarando guerra al petrolio, ha ribadito la propria posizione criticando lo stesso Lula, alle prese con un dilemma di politica interna relativo proprio ai combustibili fossili, visto il braccio di ferro fra la Petrobras, gigante statale energetico che vuole perforare la zona delle foci del Rio delle Amazzoni, e l’Ibama (l’Istituto che sovraintende al controllo e alla tutela dell’Amazzonia), che ha espresso un telefonatissimo parere contrario.
La questione è attualmente in mano alla Procura, mentre l’opinione pubblica oscilla come un pendolo fra la posizione ecologista della ministra dell’Ambiente Marina Silva, e quella a favore della perforazione del Ministro delle Miniere e dell’Energia, Alexandre Silveira; proprio su questo scontro, sineddoche di un conflitto che va ben oltre le sponde verde-oro, si è espresso il Capo di Governo colombiano: «Tra loro c’è un enorme conflitto etico […] quando invece dovrebbero stare dalla parte della scienza che attribuisce proprio ai fossili la causa principale della crisi climatica e ambientale.»
L’estensione dell’Amazzonia è di 6,5 milioni di chilometri quadrati, con una popolazione complessiva di 45 milioni di persone, e l’obiettivo culturale e politico di Lula è quello di sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale affinché ricordi che non si tratta di un museo ma della casa di tantissime e diverse popolazioni, al punto che non bastano i fondi elargiti finora dal «mondo ricco», autoassolutorio e retorico scarico di coscienza dell’emisfero settentrionale del pianeta, ma si punta a raccogliere ben 100 miliardi per la causa della deforestazione e del mantenimento della biodiversità.
Tutte le personalità politiche intervenute, ma anche naturalisti e militanti verdi, sono concordi nell’affermare che la difesa dell’Amazzonia non può prescindere dalla tutela di chi ci vive e della creazione di nuove possibilità di lavoro e sviluppo, oltre naturalmente alla necessità etica di consultare le tribù indigene prima di prendere qualsiasi iniziativa: nel frattempo, Lula ha approvato due delle nuove quattordici regioni indigene che saranno disegnate entro la fine dell’anno, e sta pensando a uno specifico accordo (militare e giudiziario) per l’Amazzonia, con apposite Procure e specifici Tribunali atti a giudicare chi commette reati ambientali, ma anche con l’attenta vigilanza degli eserciti comuni in merito, pur nel rispetto delle singole sovranità nazionali.
La naturalista Valeria Barbi, intervistata da Repubblica lo scorso 9 agosto, ma molto attiva sul web col suo progetto Wane (We are Nature Expedition), da un anno circa sta attraversando l’Amazzonia e propone una triplice ricetta per fermare la distruzione del polmone verde del mondo: 1) dare potere ai popoli indigeni; 2) bloccare l’ampliamento illegale di agricoltura e allevamenti; 3) fermare la «narcoganaderia».
Gli enormi interessi economici in ballo rendono tutto più difficile, e sembra poco credibile riuscire a trovare delle soluzioni impattanti nei soli sette anni che ci separano dal 2030, ma chiudere gli occhi di fronte ai cinque principali fattori di perdita della biodiversità (riconosciuti dall’Ipbes, International Panel for Biodiversity and ecosystem services), e cioè cambiamento climatico, sovrasfruttamento, inquinamento, perdita di habitat e diffusione di specie aliene, non sarebbe solo miope ma autolesionista.
L’Amazzonia non è più un’impenetrabile selva ricca di animali e piante da scoprire, ma un intermittente mosaico di strade, attività estrattive e alberi abbattuti per far posto a immensi allevamenti di bovini, sistema complesso e difficilmente monitorabile che facilita la «savanizzazione» in corso e la piaga della Narcoganaderia, e cioè il tentativo mimetico da parte dei narcos di nascondere i propri traffici illeciti dietro gli allevamenti intensivi e quindi, se scoperti, subire delle pene più lievi.
Se da un lato l’industria della carne, col suo monumentale fatturato, finisce col coprire quello altrettanto ingente delle droghe, il cambiamento climatico in corso, con scarsità di precipitazioni alternate a periodi di pioggia intensa che causano carestie e mancati raccolti, alimenta una polveriera sociale fatta di insicurezza alimentare, povertà e disuguaglianze, soprattutto nel cosiddetto «corridoio arido» del Centro America.
La soluzione, oltre alla maggiore attenzione internazionale, passa attraverso quella rivolta dal basso di cui si stanno rendendo protagoniste le popolazioni indigene, custodi del territorio e di millenarie tradizioni, non più solo variopinte e turistiche espressioni del folclore locale, ma vere e proprie entità politiche, autocoscienti e consapevoli.
Lo slogan «Sempre Estivemos Aqui» (Siamo qui da sempre) deve diventare il tatuaggio che suppura le illegali ferite di quel polmone mondiale che è l’Amazzonia, poiché non si può ripiantare il ghiaccio e siamo impotenti di fronte all’arretramento e alla scomparsa dei ghiacciai perenni (ossimoro della post-modernità), ma possiamo ancora agire rimboschendo e tutelando, informando e prevenendo.