Distribuita da Netflix e suddivisa in due stagioni, la prima di otto episodi e la seconda di sedici, «Black Summer» è una serie televisiva prodotta dalla casa «The Asylum», celebre prima per lavori a basso costo e poi per l’incredibile (letteralmente) successo del franchise «Sharknado», che le ha consentito di varare le cinque stagioni di «Z Nation», un horror zombie fra il trash e l’ironico, di cui Black Summer è l’ispirato prequel.
Scritto a quattro mani da Karl Schaefer e John Hyams, con un cast di attori credibilissimi fra cui spicca Jaime King (Sin City), Black Summer è il frammento di un dialogo della prima stagione di Z Nation, volto a segnalare il periodo dell’anno in cui la popolazione mondiale è maggiormente vittima dei non-morti, ritornanti, o i mille modi in cui gli zombi sono stati definiti, dal seminale «La notte dei morti viventi» di Romero, risalente addirittura al 1968.
Ma se l’ironia o il citazionismo sono il filtro attraverso cui di solito guardate i film horror, questa serie cambia decisamente passo perché non c’è traccia di comicità in nessuno dei 24 episodi, tra l’altro suddivisi in micro-capitoli tematici a schermo nero con andamento centripeto.
L’origine del male è già lontana e un manipolo di anti-eroi, di cui sappiamo pochissimo, ma che sembrano i classici esponenti della working class americana, fuggono dai contagiati usando mezzi di fortuna, nascondendosi o riponendo le proprie esigue speranze, come già visto in molti omologhi, nell’esercito che organizza camion-navette per i sopravvissuti e indica lo stadio come punto di aggregazione-sgombero finale.
Gli zombie non sono manichini disarticolati né una versione larvale di esseri senzienti, stile figuranti di un rave all’alba, ma feroci macchine guidate da una fame atavica, che corrono velocissimi e sembrano indifferenti alle pallottole, tranne quelle alla testa ovviamente, e il loro stile muscolare (con un make-up curatissimo) ricorda molto i contagiati di «28 giorni dopo».
Nella prima stagione la lotta fra umani e non-morti è il fil rouge di ogni episodio, con drappelli di combattenti che si sfaldano e ricostituiscono alla bisogna in un mondo che, com’era prevedibile, nel giro di pochissimo tempo, ha sacrificato sull’altare della sopravvivenza le più elementari regole di convivenza sociale, alla faccia dell’inclusività e del politicamente corretto.
La corsa alle armi, l’autoesilio in Motor Inn, supermercati o scuole, sono gli archetipi di un cinema che si riproduce viralmente, obliterando la metafora post-pandemica di un potere fallimentare e vivificando lo spettro di un buonismo di facciata che in realtà nasconde pulsioni violente e sadomasochistiche, ma oltre alle consuete derive paramilitari che fanno uscire dai propri, paranoici, nidi gli ultraconservatori repubblicani col pick up confederato, pronti al remake dell’assalto a Capitol Hill, Black Summer ci dona qualcosa in più: in una delle prime scene un uomo ferito, il marito della protagonista Rose, non viene fatto salire sul camion e il panico del soldato che lo ucciderà ci fa capire che nel mondo targato The Asylum non si diventa zombie solo se morsi o contagiati, ma semplicemente morendo.
Le implicazioni, narrative e esistenziali, sono legione, poiché ogni ferito, non importa come, non è solo un ostacolo che rallenta la corsa ma un possibile nemico, un morto in divenire e una spina nel fianco, e il fatto che possa trattarsi della persona amata o di un figlio, rende solo più grottesca la situazione e difficile la decisione da prendere, per non parlare del fatto che a meno di non spararsi (o farsi sparare) un colpo in testa prima di morire, tutti sono condannati a vagare per il mondo eternamente, come in una surreale apocalisse ma senza salvezza, né dell’anima né del corpo.
Dialoghi ridotti all’osso, scarso se non nullo approfondimento dei personaggi, sovrabbondanza di piani-sequenza e riprese a mano, per due stagioni adrenaliniche che non lasciano spazio ad alcuna riflessione, al punto che una maratona di Black Summer sarebbe ridondante visto che è Black Summer stessa la maratona; ma nonostante la ripetitività di placcaggi e pedinamenti, e al di là del cambio di scenario fra le due stagioni, cittadino ed estivo il primo, invernale e nordico il secondo, la serie funziona in un suo modo muscolare e istintivo.
La speranza è bandita e non è difficile immaginare che andrebbe proprio così, senza sovrastrutture né istituzioni, col cibo contingentato e il primato della legge del più forte, nessuna norma morale e l’idea stessa di comunità che frana sotto i colpi di un Male renitente a qualsiasi forma di antidoto e/o dialogo.
Attraverso l’iperbole dell’apocalisse-zombie, Black Summer descrive il (de)grado dell’umanità, ma senza il ritualismo religioso, né il lirismo di un neo-paganesimo, poiché ogni antropologia si fonda su un altrove che la famelica orda braccante esclude, divora ed espelle: io credo che dietro i rapidi movimenti di macchina, il sangue raggrumato e il sudore rappreso, si celi la volontà registica di rappresentare la futilità di un’America vicina al collasso e lo dimostrano gli interni claustrofobici, i garage iper-accessoriati e ormai inutili, gli hangar abbandonati, le caserme dismesse, tutta la funzionalità di un sapere tecnologico ridicolizzata da un primitivismo impellente.
Un’altra caratteristica piuttosto originale di queste due stagioni è la sacrificabilità del suo pantheon di attori che, dopo essere scampati a mille aggressioni, perdono la vita proprio all’apice della caratterizzazione e dell’affetto/riconoscibilità, cosa che rende il fruitore parte della fuga e non un semplice voyeur, trasformando Balck Summer in uno specchio incrinato dell’intrattenimento.
Persino i buchi nella trama, il già citato scarso approfondimento dei personaggi, e la scelta di non spiegare mai il «prima» dell’epidemia, donano alla storia quella singolarità paranoica che consente la totale adesione, insieme al non trascurabile dettaglio che molti dei protagonisti sono realmente terrorizzati e non si trasformano nello spazio di un episodio in efficienti e cinici marines.
Eppure, anche Black Summer, pur nella sua scarna brutalità, che ricorda più il «Rec» di Ballaguerò che non la saga di «The Walking Dead», è caduta nell’auto-sgambetto dell’ammiccare alle minoranze, o a quelle che lo erano fino a qualche decade (cinematografica) fa: sono una madre e una figlia, una coreana e un afroamericano a salvarsi, forse, sul finale, come a indicare che, con buona pace di Guy Debord, non si esce mai vivi dalla società dello spettacolo, nemmeno se si è già morti.