Ipse dissing: l’estate del dissenso

da | Ago 7, 2023 | IN PRIMO PIANO

Apparso originariamente nel testo di una canzone di LL Cool J del 1985, affermatosi negli Anni Novanta e consolidatosi nel Nuovo Millennio, il termine «dissing», deriva afro-slang di «derespecting», ha di recente superato il recinto dell’hip hop e della (t)rap, infilandosi rizomaticamente nel mondo del pop e della cultura ufficiale.

Veicolato dalla Rete, e in particolare dall’anima nera dei social network, con meccanismi noti agli addetti al mestiere come le Echo Chambers, sfruttando la tendenza dell’algoritmo a spingere sui contenuti più estremi che calamitano gli haters, il dissing si è trasformato da una (di)simpatica rasoiata fra rapper ansiosi di successo o annoiati dal politicamente corretto a un vero e proprio fenomeno di costume in grado di coinvolgere migliaia di followers, col solito dualismo «favorevoli o contrari», fino a mobilitare il (cattivo) gusto di blasonati intellettuali, incapaci di sottrarsi allo spirito dei tempi.

Re indiscusso del dissing è stato e rimane Fabi Fibra, che le ha date (dette) di santa ragione un po’ a tutti, da Elisa a Piero Pelù, passando attraverso Caparezza e Frankie HI-NRG, Piotta e Tiromancino, 99 Posse e Linus, con rime al vetriolo e vere e proprie saghe narrative stile feuilleton ottocenteschi ma decisamente più salaci.

Ha fatto scuola in tal senso il botta e risposta fra Salmo e Luché, ma anche la recente querelle fra J-Ax e Paolo Meneguzzi, con offese che a volte partono dai profili Facebook/Instagram per poi diventare vere e proprie canzoni (dis-song), o viceversa.

Non siamo certo ai livelli della storica rivalità a stelle e strisce fra East Coast e West Coast, che ha portato alla morte di rapper del calibro di Tupac Shakur o The Notorius B.I.G., ma anche il dissing tricolore si candida ad essere non solo un velenoso scambio di giochi di parole mescolato ad abili strategie di marketing (di rilancio o consolidamento), l’equivalente per intenderci del silenzioso patto fra paparazzo e starlette in declino, ma un vero e proprio fenomeno sociale.

Che il dissing vagisca nella musica, e nel dettaglio proprio nel rap, con o senza t, visto l’impoverimento culturale della scena nostrana ormai endemico da un decennio a questa parte, non stupisce, ma quando i suoi canoni entrano nella cronaca nazionale, più che di contaminazione o di disintermediazione, si può parlare di vero e proprio declino.

Emblematici in tal senso sono stati due articoli, il primo scritto da Alain Elkann il 23 luglio scorso, l’altro il 4 agosto da Concita De Gregorio.

Lontani dall’estetica rap e privi di vistosi tatuaggi o dell’oggettistica di maniera, quello che accomuna gli articoli partoriti da due indiscussi appartenenti all’intellighenzia italiana, non è tanto il motivo o l’oggetto delle reciproche invettive, ma lo stile e la cornice.

Riassumiamo.

«Sul treno per Foggia con i giovani Lanzichenecchi», racconta l’avventura di un signore non più giovane che in stazzonato abito di lino blu e camicia leggera si reca a un festival letterario nel Gargano incontrando nella carrozza di prima classe del treno Italo i «nuovi Lanzichenecchi», e cioè giovani barbari dall’accento settentrionale che, muniti di i Phone e Nike griffate, bevendo thè freddo e Coca Cola, parlano forte di calcio e di come rimorchiare ragazze, per niente interessati a lui, che scrive il suo diario con una stilografica, legge Proust, il Financial Times, il New York Times e Robinson di Repubblica.

Il primo velo dell’interminabile polverone sollevato fa riferimento al quotidiano che ha ospitato il pezzo, e cioè proprio la Repubblica (quella del supplemento citato), di proprietà di John Elkann, figlio dello scrittore e giornalista, ma anche il quasi unanime coro di dissenso della redazione del giornale, che ha scelto comunque di pubblicare l’articolo.

Il Sole 24 ore ricorda ad Alain che la prima classe di Italo è definita tale solo per ragioni di marketing, e che le vere classi superiori sono «Club Executive» e «Salotto», quindi, la sua indignazione da boomer si scontrerebbe con la democratizzazione del trasporto italiano, mentre in molti gli hanno ricordato, ma sottovoce per non passare a loro volta da snob, che «Sodoma e Gomorra» non è il secondo volume della Recherche proustiana ma il quarto.

Eppure, sono fioccate insieme ai meme satirici e a migliaia di commenti inferociti, le inevitabili accuse di classismo che hanno evidenziato una realtà incontrovertibile: pur provenendo dalla penna di un personaggio che definire ben inserito sarebbe un eufemismo, l’articolo viola tutte le leggi del politicamente corretto e dell’inclusività, divenendo suo malgrado uno scritto sovversivo, degno di essere collocato nella categoria del dissing (anche se, nel caso specifico, il vocabolo starebbe meglio in bocca ai destinatari dell’invettiva e non al loro autore).

Qualcuno si è interrogato sulla volontarietà del tono blasé, chiedendosi se Alain facesse sul serio o fosse ironico, mentre altri hanno sottolineato, in perfetto stile trap, quanto l’articolo abbia «spaccato», mentre a mio avviso fuori luogo sono stati i paralleli con Pasolini, se non altro per il mood, visto che il poeta e regista friulano parlava con dolore dell’omologazione culturale in atto nel nostro paese, non da compiaciuto appartenente alla classe dirigente ma da suo acuto e critico osservatore.

Pochi giorni fa, scagliandosi contro degli influencer che per scattarsi un selfie hanno danneggiato una statua ottocentesca, Concita De Gregorio ha scritto: «in un tempo non così remoto sarebbero stati alle differenziali, seguiti da un’insegnante di sostegno che diceva loro vieni tesoro, sillabiamo insieme, pulisciti prima però la bocca».

Imbarazzate, e imbarazzanti, le scuse della giornalista, rea di aver usato un deficit cognitivo come termine di paragone denigrante, cardine e mantra dell’abilismo, e che ha cercato di dimostrare quanto quella di un cerebroleso (come lei ha definito i vandali-influencer) sia una condizione e non un insulto, ma rilanciando sul politicamente corretto che in Italia limita il pensiero e l’azione, soprattutto a sinistra; per la serie: «ho sbagliato termine di paragone ma rivendico il mio disgusto per l’accaduto».

Lungi da noi creare un pericoloso parallelo fra i Lanzichenecchi con l’i Phone e i vandali della De Gregorio, ma i due punti in comune fra gli articoli citati sono l’indifferenza delle nuove generazioni e il punto di vista degli osservatori: ai vandali intenti al selfie poco importa dell’opinione della De Gregorio e i lanzichenecchi in Nike non sapranno neanche chi sia Elkan, quindi il conflitto intergenerazionale alla base della filosofia, e dell’estetica, del punk semplicemente non esiste più, ma al di là del presunto classismo ed abilismo degli autori, il fatto che i reciproci articoli provengano entrambi dalle colonne di Repubblica, smutanda di fatto la retorica sull’inclusività sbandierata negli ultimi anni, rilanciando il tema della superiorità morale di una certa sinistra.

Quando il dissing si libera dell’ironia e diviene un fattore sociale dequalifica un serio dibattito sui problemi educativi di questo paese, limitandosi alla Polaroid, più o meno seppiata, di un degrado inarrestabile: far conoscere Proust ai ragazzi con le Nike e valorizzare chi pulisce la bava ai disabili, invece di ridicolizzarlo, potrebbe essere un buon inizio.

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