Ritorno a Seoul: l’impossibilità delle origini

da | Lug 31, 2023 | MONDOVISIONE

Alla sua seconda opera, il regista franco-cambogiano Davy Chou, dai chiari lineamenti orientali ma formatosi oltralpe, firma un’opera frutto dell’amicizia con Laure Badouffle, la cui storia ha ispirato la trama, e con l’esordiente e magnetica Ji-Min Park, degna protagonista di un film, «Ritorno a Seoul» (2022), che è stato unanimemente ben accolto dalla critica e che ha raccontato una Corea ben diversa da quella descrittaci dalla cinematografia autoctona degli ultimi anni.

Presentata a Cannes, nella sezione «Un Certain Regard», il 22 maggio 2022, la pellicola ha partecipato fuori concorso al Torino Film Festival, ed è stata scelta come rappresentante per la Cambogia nella categoria «miglior film in lingua straniera», agli Oscar 2023.

TRAMA

Freddie Benoît è nata a Seoul, ma appena in fasce è stata data in adozione a una coppia parigina: a 25 anni, mentendo ai genitori adottivi, finge di perdere il volo per Tokio e finisce proprio in Corea, dove si dà alla ricerca, più o meno consapevole, dei genitori biologici.

L’iniziale incontro con Tena (Han Guka), dolce e seria impiegata della struttura ricettiva dove alloggerà, traccia due importanti coordinate del film e cioè la musica, tramite la quale Freddie proverà a gettare un ponte verso un paese di fatto sconosciuto e verso un padre vittimista e semialcolizzato, ma con un’amatoriale vena compositiva, e la barriera linguistica, che riuscirà a infrangere solo nel corso degli anni.

Tramite Tena e il suo compagno si rivolgerà al centro per adozioni Hammond e, grazie a una vecchia foto con un numero segnato a penna sul retro, reperirà il proprio fascicolo riuscendo a rivedere il padre e la sua (estesa) famiglia; le lacrime del genitore, corroborate da ingenti quantitativi d’alcol, e quelle della nonna paterna, tradotta simultaneamente in inglese da una parente stretta, inscenano un plateale senso di colpa che ci dono lo spaccato sociologico di una nazione così povera da aver dato in adozione migliaia di bambini, dal dopoguerra fino alla metà degli anni Novanta.

Freddie fuggirà dalla famiglia ritrovata che la vorrebbe lì con sé, e da un padre malinconico e frustrato che racconta mestamente del proprio passato da pescatore, vaneggiando di possibili ricongiungimenti futuri, ma già alla sua seconda venuta, dopo un breve flirt con un rappresentante d’armi che la assumerà come commerciale per l’Europa, grazie al cavallo di Troia del suo aspetto prettamente orientale, una migliore conoscenza del coreano le schiuderà le porte della Seoul underground, della movida e degli stupefacenti, quasi illudendola d’aver trovato la radice della sua inquietudine esistenziale.

Il silenzio materno ai ripetuti telegrammi del centro Hammond, sul finale si interromperà e il tardivo incontro con la genitrice, inquadrata sfocatamente sullo sfondo, chiuderà circolarmente l’opera con la canzone composta dal padre di Freddie, mentre quest’ultima proverà a risuonarla al pianoforte.

LA MALINCONIA DI COSE MAI VISSUTE

La spontaneità e bravura di Ji-Min Park si declina nell’espressività facciale e nell’alternanza fra una rassegnata immobilità e le improvvise esplosioni di vitalità, come in un passaggio in cui danza da sola nella sala da pranzo di un ristorante, o quando coinvolge tutti i tavolini di un diner per una collettiva e imbarazzante sbronza, terminata poi in una promiscuità assolutamente fuori contesto.

Freddie cerca di ricreare un’origine che in realtà non esiste, né in Francia né in Corea, e che la porta a girare su sé stessa come una trottola impazzita: non è cosmopolitismo il suo né bilinguismo (quando meglio apprenderà il coreano), ma una sensazione diffusa al tempo dei non-luoghi à la Augé, e cioè la mancanza di una radice certa, di una terra che dia cittadinanza ai propri ricordi e fondi quel mito che per Cesare Pavese è «ciò che accade una volta e una volta soltanto».

Non basterà il sesso occasionale, come lenitivo a una ferita la cui memoria non si è persa ma proprio non esiste, né la sbronza perenne, quella che Emmanuel Carrére così ben descrive in «Limonov» per i russi in procinto di lasciare forse per sempre la propria madre patria, e cioè l’infernale «zapoj», perché la condizione che vive Freddie è quella di una deraciné involontaria che non ha scelto, per quanto a volte avvenga obbligatoriamente, l’espatrio, ma che è stata tragicamente abbandonata.

Se a volte il rifiuto di chi ci ha generato produce traumi indelebili, inestricabili nella loro circolarità, la condizione dell’esule, da Dante ad Henry Miller, ha sempre concesso il distacco della lucidità e la chirurgia di un giudizio definitivo, così la Corea filmata da Davy Chou, è un paese dilaniato da un difficile passato e dall’eterna contraddizione, tutta orientale, fra tradizione e futuro prossimo, ed è in questo iato che si annidano devianze e paradisi artificiali.

Carmelo Bene sosteneva che a volte si può provare «malinconia per cose che non ebbero mai un cominciamento», e in finlandese esiste un termine (kaukokaipuu) che descrive proprio la malinconia di cose mai vissute, così, sotto il punto di vista dell’identità nazionale, termine complesso e ibridato, frutto di stratificazioni geografiche, socioculturali e a volte belliche, da non confondersi col nazionalismo che, al contrario, richiama un’idea statica di appartenenza non a valori unanimemente condivisi ma a stereotipi fissati nella pietra (funebre), Freddie, come un replicante di Ridley Scott, vive di innesti, e cioè di ricordi non suoi di cui cerca disperatamente, e inutilmente, l’autenticità.

In pieno dissesto climatico, con una politica incapace di leggere (figurarsi di indirizzare) la prossimità, e con una liquidità, professionale ed economica, ormai destinata alla sublimazione, siamo tutti figli adottivi di una patria, la democrazia, che ha appiattito nell’uguaglianza indiscriminata e nel politicamente corretto, ogni nostro anelito all’identità e alla differenza.

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