Abbiamo preso in prestito il vocabolo norvegese «Maelström», che descrive un particolare gorgo marino, diffuso nelle coste dei paesi scandinavi e della Scozia, quando la marea penetra in passaggi molto stretti e non riesce a scorrere agevolmente, e che ha ispirato l’omonimo racconto di Edgar Allan Poe, «Una discesa nel Maelström», per descrivere ciò che sta accadendo all’industria musicale internazionale, e italiana, ormai da molti anni.
Apparentemente, non c’è mai stata così tanta musica nell’etere come in questo periodo storico, con un’inedita possibilità di accesso alle opere di qualsiasi artista, velocità di reperibilità, piattaforme dedicate e una ratio ispirata alla personalizzazione della scelta, per non parlare dell’algoritmo che ci libera dell’oneroso fardello della ricerca, indirizzandoci verso gruppi o solisti il cui genere somiglia al nostro gusto di riferimento.
Eppure, la musica sembra essere stata estromessa dagli ambiti più rappresentativi del dibattito pubblico, ridotta a mero sottofondo, non più in grado di dare voce ad istanze quali il precariato, la disuguaglianza sociale, la ribellione giovanile o l’evidente appassire della cultura: ma siamo sicuri che questo dipenda da un mero calo qualitativo dei suoi autori e interpreti, o il fenomeno è decisamente più complesso?
CHI SI ACCONTENTA (G)ODE
Ha fatto molto scalpore l’intervista rilasciata da Enrico Silvestrin, ex Vj di Mtv e oggi divulgatore musicale su Twitch e You Tube, al Corriere della Sera il 29 giugno scorso in merito a dei suoi tweet ferocemente polemici contro il concertone «LoveMi», organizzato nei giorni precedenti da Fedez, proprio nel capoluogo lombardo.
Il cinquantunenne, anche attore autore ed ex-musicista, con toni tutt’altro che blandi ha definito il tatuatissimo trapper «il divulgatore della m… di questo paese» e il pubblico in piazza «dei disagiati senza cultura», arrivando ironicamente a dire che l’auto-tune era presente sia sopra che sotto il palco.
Non era di certo sua intenzione sollevare un simile polverone mediatico che (in)direttamente ha rilanciato il suo lavoro (peraltro pregevole), ma nell’intervista a Barbara Visentin sono stati molti i temi trattati i cui minimi comuni denominatori sembrano essere la chiusura del nostro apparato musicale all’Estero, e la pochezza culturale, sia degli operatori di settore che dei fruitori, paralizzati dalla pigrizia e/o dalla nostalgia.
La nobile crociata di Silvestrin, e di chi come lui fa vera ricerca, è quella di non isolarsi in un aureo passato fatto di vinili e di musica suonata davvero, contro la dittatura liquida del mondo digitale, ma di valorizzare il presente, quello lontano dal playback e dall’auto-tune, dai personaggi in provetta e da un genere che ricicla sé stesso, sordo alle innovazioni (soprattutto elettroniche) che provengono dal Pop anglofono e non solo, parlando di artisti italiani di elevato profilo stimati all’Estero e pressoché sconosciuti da noi, tipo Maria Chiara Arigirò, Marta del Grandi o Emma Tricca.
Fedez non ha risposto alle polemiche e, tranne qualche velata critica da parte di chi lo ha definito un boomer, l’intervento dell’ex Vj è stato generalmente ben accolto, soprattutto nella parte in cui lamenta la sparizione di una critica intelligente e attenta, a favore di un sistema quasi «familistico» di buoni rapporto e conoscenze, ma anche nel passaggio in cui stigmatizza il provincialismo delle radio italiane, ferme a stereotipi e a riproposizioni novecentesche, o di una politica che invece di aprire e investire sulla contaminazione, blatera di quote italiane da imporre ai palinsesti, laddove mai come in questa fase storica, i primi 20 posti della classifica dei brani più ascoltati sono stati così infestati da (presunti) successi tricolore.
Ma il problema non sembra essere solo italiano, visto che in un articolo di qualche mese fa apparso su Rockol.it, a firma di Elisa Giudici, si parla di come Cinema e Tv, anche e soprattutto americane, si siano date al riciclo di classici anni Ottanta come «Holding out for a hero» di Bonnie Tyler, «Heart of Glass» dei Blondie o «Take on Me» degli A-Ah: il fenomeno è tanto più allarmante se si considera che in film di recente uscita, e cioè «Air», «Super Mario Bros» o «Tetris», l’abitudine di utilizzare tormentoni pop solo temporaneamente, per poi sostituirli con pezzi originali, a causa della pigrizia degli spettatori ma anche della furbizia a corto raggio dei produttori, è stata sostituita da quella di lasciare i tormentoni stessi, sfruttandone il semplicistico climax ascendente o l’immediata identificazione con l’edonistico e a-problematico mood ottantiano.
Questa nostalgica e pericolosa china, che rischia di clonare serialmente anche i contenuti, oltre agli stili musicali, non ha risparmiato nemmeno le colonne sonore in senso stretto che, per una scelta commerciale ben precisa, si discostano l’una dall’altra quel tanto da evitare l’accusa di plagio, ma che finiscono grossolanamente per somigliarsi un po’ tutte.
Per un gioco di corrispondenze che delimita la sensibilità comune di chi alla musica ha sempre dato valore ed ora ne registra il declino non qualitativo ma, possiamo dirlo, politico, sono stati ben due i personaggi che in maniera spontanea e involontariamente complementare, si sono allineati al Silvestrin-pensiero, e cioè Trent Reznor e Boosta.
Il primo, frontman ed eminenza grigia dei Nine Inch Nails, ma anche compositore di colonne sonore (Oscar per «The Social Network» col sodale Atticus Ross), ha dichiarato: «la mancanza di importanza della musica nel mondo di oggi è un po’ una sconfitta: mi sembra in generale, e lo dico da uomo di 58 anni, che la musica era la cosa che sentivo quando avevo tempo. Io ascoltavo musica. Non la tenevo in sottofondo mentre stavo facendo altre cinque cose e non la trattavo come merce usa e getta […] mi manca l’attenzione che riceveva la musica, mi manca l’attenzione critica che aveva la musica.»
Dello stesso regime, ma più a largo spettro, l’intervista di Boosta (tastierista dei Subsonica e dal 23 luglio in tour col suo Post Piano Session, una suite di elettronica e pianoforte) rilasciata a Rolling Stone dove, sintetizzando il tutto in una domanda: «la musica fa ancora le rivoluzioni o le rivoluzioni non fanno più musica?», analizza la musica degli anni 00, quella dell’ascolto superficiale e diluito, delle piattaforme, dello swipe e della bassissima soglia di attenzione degli ascoltatori.
L’argomento è inesauribile e ramificato ma al netto di temi come la superfetazione culturale dell’algoritmo e i rischi «connessi» all’intelligenza artificiale, la sparizione del racconto e del formato solido dell’oggetto musicale, ma anche il generico invito a una certa leggerezza, di testi e musiche, il vero problema sembra risiedere proprio nella domanda di musica, superficiale e disattenta che, intrecciandosi a un’offerta incapace spesso di innovare o di investire in innovazione, rischia di accontentarsi o di ripiegare su sé stessa ascoltando solo ciò che già conosce, e che la riporta a un passato inevitabilmente glorioso perché immutabile.
Chi si accontenta (g)ode.