Possiamo iniziare da un divertente episodio di gossip accaduto alla serata finale del Premio Strega 2023, quando, interpellato dalla brillante conduttrice Geppi Cucciari, il ministro della cultura Gennaro Sangiuliano ha dichiarato, pur facendo parte della selezione dei giurati che votano i testi: «Le storie raccontate dai romanzi arrivati in finale fanno riflettere, proverò a leggerli».
Incredula, la comica sarda ha replicato: «Ah, perché non li ha letti?», e il ministro ha ribattuto: «Si, li ho letti perché li ho votati, ma proverò ad approfondirli». Al vetriolo la controreplica: «Ah, intende oltre la copertina?».
Matteo Renzi, in piena astinenza dai riflettori, ha commentato su Twitter: «Ho capito perché il ministro Sangiuliano ha scelto di cancellare la #18 App: lui i libri non li legge. Li scrive, li giudica ma non li legge.»
Il ministro ha dichiarato, con perfetto «esprit de l’escalier», o in affanno come uno studente colto in fallo durate un’interrogazione imprevista, che le sue parole sono state travisate, ma la sua gaffe (in)volontaria (le parentesi sono per noi, non per lui) ci dona l’occasione di riflettere sulla principale disfida letteraria italiana, e sulle condizioni del romanzo e della narrativa in genere, nel paese della poesia per antonomasia.
Non è molto chic occuparsi di questioni che appartengono al nobile ma ristretto perimetro della critica letteraria, ma un recente dibattito sulla fiction, e una serie di articoli ad essa dedicati, lasciano intendere che la materia trattata travalichi quello che Céline definiva «lo stagno della letteratura», divenendo una vera e propria questione social(e), e qui le parentesi sono per tutti.
STREGA(TI) DALL’AUTOFICTION
In un articolo de L’Espresso datato 5 luglio, si è parlato delle tre principali coordinate relative alla cinquina finalista dello Strega, e cioè che si tratta, per la maggior parte, di scrittrici donne, di storie vere o ispirate ad episodi realmente accaduti e di «tragedie individuali, storie di relazioni interrotte, situazioni commoventi […]»: ergo, dolore individuale declinato, quasi esclusivamente, al femminile.
Come ha giustamente commentato Stefano Petrocchi, Direttore della Fondazione Bellonci e segretario del Comitato direttivo del Premio, l’obiettivo «non è tanto formare un canone, ma rivolgersi alla società dei lettori e interpretarne le tendenze», e qui, giustamente, la penna di Sabrina Minardi, che ha firmato il pezzo, si è interrogata sulla radice ontologica di questa prossimità tutta italiana alla sofferenza scritta, trovando una risposta se non esaustiva di certo soddisfacente, nelle parole di Melania Mazzucco, pronta a sciogliere il nodo nella pandemia: «Si è abbattuta sui libri l’onda lunga dello shock post-traumatico. Per la maggior parte, quest’anno, i libri s’inscrivono nel segno del trauma, privato, personale, a volte segreto e indicibile, ma anche pubblico, collettivo.»
Non più trama, quindi, ma trauma.
Se è vero che la sofferenza, rappresentata su carta o messa in scena, genera la catarsi se non mostra violenza, reale o stilizzata, è altrettanto vero che la sua sovraesposizione, senza il filtro della verosimiglianza, può condurre al perturbante o a quella che Scurati, in un saggio di qualche anno fa, definiva «oscenità», opponendola alla tragedia classica.
È un fatto che la narrativa italiana stia cambiando, e non sappiamo se tale mutamento, inevitabilmente sociale e certamente antropologico, sarà così netto e repentino come quello che ha investito il mondo della musica negli ultimi anni.
Un recente studio Nomisma ha rilevato che in Italia il trenta per cento dei libri pubblicati non vende nemmeno una copia, e che nel 2022 solo 35 000 fra essi hanno raggiunto le dieci copie acquistate; a fianco a questi dati, oggettivamente allarmanti, c’è la buona, anzi ottima, crescita dei volumi pubblicati dal 2016 ad oggi.
Le cause sono molteplici, e spesso intrecciate: dal diffondersi dell’autopubblicazione e dell’editoria a pagamento, al proliferare di piccole case editrici che, a prescindere dalla serietà del proprio lavoro e dei testi proposti, sono piuttosto deficitarie in termini di distribuzione, ma non si può non considerare l’affacciarsi, fluviale nell’ultimo decennio, di soggetti «altri» nel mondo editoriale, e cioè sportivi, attori, ex celebrità sul viale per niente patinato del tramonto (racconto?) che ricercano in autobiografie posticce, magari scritte conto terzi, improbabili rilanci o dignitose chiose narrative.
La geniale definizione di uno dei pionieri delle scuole di scrittura italiane, e cioè Alessandro Baricco, secondo cui la maggior parte dei nuovi soggetti letterari vorrebbe portare con un libro, più o meno autobiografico, la propria esistenza individuale a compimento, per partecipare o far partecipare a questa cerimonia del tè collettiva, più persone possibili, non elimina il preoccupante dato che nel nostro paese aumentano gli scrittori e diminuiscono drasticamente (anche fra gli scrittori), i lettori.
Torna in mente la provocatoria frase di Borges: «Vorrei essere ricordato più per i libri che ho letto che per quelli che ho scritto.»
Ma, tornando al nuovo canone letterario suggerito dalla cinquina dello Strega, e obliterato da molte recenti pubblicazioni, in un interessante articolo sempre datato il 5 luglio scorso sul quotidiano «Domani», si è parlato di come questa tendenza vada in opposizione ai principi sanciti dalla Poetica di Aristotele, quando il filosofo dichiarava che la tragedia, per quanto ispirata alla realtà, si fonda sulla verosimiglianza e sulla rimodulazione plastica della stessa, opponendosi di fatto alla storiografia, che non può né deve distaccarsi dalle «storie vere».
Il rapporto fra realtà e finzione in letteratura è sempre stato complesso e interconnesso, se si pensa a quante opere di fiction si siano travestite da epistolari o finte cronache (Robinson Crusoe, Moll Flanders e via seguendo), ma lo zeitgeist dell’autofiction, che impone l’ingresso esplicito dell’autore nell’opera, rischia di fondare una pedagogia a posteriori, visto che si è sempre «dopo» l’azione raccontata, e con un conformismo morale che accetta solo trasgressioni spuntate, al fine di giudicare il testo secondo il grado di adesione etico del protagonista-scrittore alle recenti maschere del politicamente corretto.
A nostro parere, la sbornia di realtà della nuova letteratura, da un lato è il disperato grido, temo generazionale, di riappropriazione della realtà alla luce del furto operato su di essa dai simulacri digitali, ma dall’altro è l’opposto dell’autobiografia lirica di autori quali Henry Miller, Bukowski o tutta la Beat Generation, perché non punta a trasformare esteticamente la propria vita in un’opera d’arte ma fa l’esatto contrario, col rischio di compiere un’operazione reazionaria e stantia.
La parola d’ordine che può mutare l’autofiction in autobiografia lirica o, mi si passi il neologismo, in «autolalia», è la poesia (intesa come poeticità e non versificazione) come trasformazione del dettaglio in simbolo, per niente ammiccante alla comunità dei lettori, secondo il principio di riconoscimento: solo così si può sfuggire alla pornografia del dolore e, raccontando sé stessi, dissolvere il soggetto nella purezza del racconto.