Aftersun: la verità dietro le immagini

da | Lug 7, 2023 | MONDOVISIONE

Celebrata quasi unanimemente dalla critica, l’opera prima della regista scozzese Charlotte Wells, che ne ha curato anche la sceneggiatura, è valsa la candidatura all’Oscar come miglior attore protagonista a Paul Mescal, un Gotham Independent Film Awards e un Bafta, come miglior esordio britannico, proprio alla regista e sceneggiatrice, oltre a un’interminabile lista di candidature.

Distribuito, promosso e oserei dire protetto dal tritacarne dell’esposizione mediatica, in Italia da Mubi, «Aftersun» è un film del 2022 che vede la star della miniserie «Normal People» duettare con l’esordiente Frankie Corio, creando un convincente racconto di formazione a due voci che non si esaurisce nella narrazione, ma impone una riflessione, grazie al salto temporale dei flashback, sul ruolo dell’immagine nell’era digitale, e su come questa possa mutare o deteriorarsi, in rapporto alla memoria.

Nell’estate analogica della macro-esposizione solare, l’aftersun (letteralmente «crema doposole») è il lenitivo alle scottature che il tempo provoca sulla pelle, ma dietro questa metafora piuttosto intuitiva si cela il ruolo sismico di una memoria mai ferma, in grado di rifondare sé stessa attraverso continue frane e smottamenti, come un terreno che ricerchi stabilità riposizionando frammenti di un passato troppo logoro (o doloroso), per comporre un quadro coerente e/o uniforme.

TRAMA

Il trentenne scozzese Callum, padre separato ormai residente a Londra, decide di trascorrere l’estate del 1999 con la figlia undicenne Sophie, in un resort di second’ordine in Turchia, e questa vacanza verrà immortalata da sfocate polaroid e da una handycam DV (all’avanguardia nella tecnologia di fine millennio) che la Sophie adulta riguarderà, proprio all’età del padre al momento delle riprese, per cercare di mettere ordine in una vita che intuiamo tutt’altro che serena.

Fra malinconici cocktail serali, visite guidate e intrattenimento di basso livello, la piccola Sophie familiarizzerà con altri turisti britannici, molti dei quali più grandi di lei, sbirciando iniziazioni sessuali, abusi alcolici e dando il suo primo bacio a un coetaneo, dopo aver dimostrato un’insospettabile bravura sia a biliardo che negli antiquati giochi arcade anni Novanta.

La sua freschezza, incrinata da una precoce e forse non voluta maturità, contrasta coi conflitti paterni: Callum è un trentenne irrisolto dal lavoro precario e con evidenti limiti finanziari, un’adolescenza problematica alle spalle che affiora da qualche tagliente risposta data a sua figlia sui nonni paterni, e un’omosessualità latente che Sophie intuisce da un bacio rubato a un altro uomo, in un momento in cui pensava di non essere visto.

«Io ho provato ogni tipo di droga quindi non ti giudicherò mai, ma voglio che tu non mi nasconda niente», esclama Paul/Callum a un’attonita Frankie, mentre in un’altra scena aveva confessato a un istruttore-sub, prima di un’immersione, di non essere proprio sicuro di voler arrivare a quarant’anni, e in questi due frammenti, che culminano in un solitario bagno notturno in mare che lascia presagire il peggio, anche se poi ritroviamo il protagonista nudo ed esausto sul letto, si evocano tutte le pulsioni autodistruttive di un uomo che «gioca» a fare il padre senza averne (né averne mai richiesto) la maturità, o la necessaria predisposizione a dissimulare la realtà.

L’educazione richiede una preliminare e rigida assegnazione dei ruoli che in Aftersun decade poiché, anche grazie ai salti temporali suggeriti dalla pellicola, che ci mostrano una Sophie trentunenne con la propria compagna e un bambino piccolo, i due protagonisti si scambieranno di maschera più volte, divenendo quasi complici o fratelli, laddove il disperato dispositivo di leggerezza congeniato da Callum si infrangerà contro la tragica evidenza dei fatti.

Aver perso la costosa mascherina da immersioni compratale dal padre costringerà l’undicenne più vecchia del mondo a scusarsi ripetutamente, consapevole delle difficoltà economiche in cui versa il genitore che, senza dirle niente, tornerà in un negozio di tappeti per acquistarne uno da 850 sterline, nonostante non possa permetterselo, forse per dimostrare qualcosa a sé stesso, o più probabilmente per farne un cimelio di quel viaggio da regalare a sua figlia, che in effetti lo piazzerà nella sua futura camera da letto.

Dopo uno straziante assolo di karaoke sulle note di «Losing my Religion» dei REM, il film si chiuderà col ritorno di Sophie da sua madre, ripresa dal padre in aeroporto, prima di allontanarsi lentamente mentre la bambina, ormai adulta, chiuderà l’obiettivo della Handycam DV.

LA VERITÁ DIETRO LE IMMAGINI

«Aftersun» funziona perché oppone all’evidenza delle immagini la disperazione dei fuori-scena, in cui vediamo, o meglio sbirciamo, Callum piangere nudo, di schiena, o restare completamente indifferente agli auguri a sorpresa progettati da sua figlia con un gruppo di compiacenti sconosciuti, perché la testimonianza di un ricordo vince sulla sua nuda riproduzione meccanica, e quel che resta del vissuto è il non detto, il margine scollato, lo spazio bianco di riflessione che si allarga nella ricostruzione postuma, o forse posticcia, di un senso.

Per tutto il film,  alle riprese amatoriali e alle polaroid, si intrecciano le immagini strobo di un rave in cui Callum, sudato e sconvolto, non riesce a riunirsi a Sophie, ormai adulta, che lo osserva, non vista, darsi a una danza psicotica e ossessiva: noi sappiamo che nonostante la sua fissazione per il Tai Chi o per i libri di auto-aiuto che appaiono nell’inquadratura, Paul commetterà il gesto estremo o si allontanerà comunque dalla vita di sua figlia, costringendola alla dolorosa rielaborazione postuma di quell’estate, ma il trionfo di un’opera così sensibile e compiuta, proprio nella sua incompiutezza, sta tutto nello sfiorare e nel suggerire, senza mai rivelare niente.

È il velo a trasformare il dettaglio in frammento universale, consentendo la trasfusione di ricordi fra opera e fruitore, poiché solo una memoria mobile può diventare eterna e, solo se irrisolta, la sofferenza può parlare a tutti.

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