Ibrido d’autore dalla curatissima fotografia, «La Pittrice e il Ladro» ha vinto il Premio Speciale della Giuria al Sundance Film Festival nel 2020, destando la curiosità di critici e addetti al mestiere per il linguaggio volutamente spurio, e per quella commistione fra autenticità e finzione che sembra la cifra dei migliori documentari di nuova generazione.
Il regista Benjamin Ree, documentarista noto al grande pubblico proprio per «Magnus» (2016), il biopic sul geniale scacchista Magnus Carlsen, fu inizialmente colpito dall’episodio di cronaca alla base della storia, e decise di seguire i due protagonisti a partire dal 2015, trasformando l’originaria idea di un corto in un lungometraggio che capitalizzasse i quasi tre anni di «tallonamento artistico».
A differenza dello sperimentalismo posticcio di alcune pellicole, che credono di sfidare dialetticamente l’artificio della messa in scena mostrando troupe e macchina da presa, espediente che solo raramente restituisce il midollo della storia, «La Pittrice e il Ladro» ha un montaggio ben preciso e i due protagonisti, nei panni di sé stessi, si comportano come veri attori, assecondando il celebre aforisma di Oscar Wilde: «Date a un uomo una maschera e vi dirà la verità».
TRAMA O NON TRAMA
Barbora Kysilkova è una giovane pittrice ceca, naturalizzata norvegese, che vive e lavora ormai da anni ad Oslo, essendosi trasferita lì anche per amore: il suo stile iperrealista che riproduce fedelmente i dettagli del soggetto con i colori saturi di una macchina fotografica, l’ha resa un’artista di nicchia le cui opere non hanno una grande quotazione, perché dense di particolari macabri e con un taglio oscuro che ne inibisce la vendita al grande pubblico.
Durante una mostra personale nella Galleria Nobel, risalente proprio al 2015, due ladri si introdussero dopo l’orario di chiusura e rubarono due tele di scarso valore compiendo un paio di gesti apparentemente antitetici: non disattivarono le telecamere mostrandosi quindi a volto scoperto e, invece di tagliare le tele con un coltello, com’è abitudine fare per guadagnare tempo, svitarono accuratamente i chiodi dalla cornice impiegando quasi un’ora e mezza.
La pittrice, affascinata da questo mix di approssimazione e professionismo, decise di incontrare uno dei due criminali, Karl Bertil Nordland, proprio durante il processo (che fruttò 75 giorni di carcere ad entrambi), e di chiedergli di posare per lei.
L’uomo, criminale confesso e storico tossicomane, acconsentì trasformando il sodalizio artistico in un reciproco scambio di esperienze e racconti che la macchina da presa di Ree riproduce in modo intimo e mai invadente, dall’incidente automobilistico di Bertil, che lo condusse sull’orlo della paralisi e della depressione, fino al carcere e ai tentativi di disintossicazione, passando attraverso la crisi economica di Barbora e il suo ambivalente rapporto col compagno/confessore, in grado di salvarla dalla precedente relazione tossica, ma anche giustamente preoccupato per il fascino da lei dimostrato per il lato oscuro del suo «modello».
«Barbora sembra interessata solo alle mie esperienze estreme», dichiara Bertil, «ma io sono stato un ottimo studente, un buon atleta, e attualmente sono uno dei pochi in Norvegia che sa praticare l’antica arte della falegnameria»: e in effetti il tatuatissimo e nordico ladro sfugge allo stereotipo del tossico che vive nella spazzatura e non ha alcun interesse al di fuori della ricerca della salvifica (o mortale) dose, essendo un appassionato d’arte e motori, musica e cultura fisica, non privo di una bizzarra autoironia (basta pensare alla t-shirt «Crime Pays»).
L’arte può avere una funzione taumaturgica o, al contrario, può divenire un tramite per la perdizione, negando la catarsi e liberando i nostri peggiori istinti autodistruttivi? Il fulcro de «La Pittrice e il Ladro» risiede proprio in questa domanda, poiché se da un lato è chiara l’ispirazione tanatologica nelle tele di Barbora, dall’altro emerge in modo evidente la sensibilità artistica e la fragilità emotiva di Bertil, al punto che l’una sembra cercare nell’altro l’abisso e la redenzione, e viceversa.
La scena in cui Karl piange, commosso, di fronte all’agnizione della prima tela a lui ispirata e dice: «mi hai visto veramente per la prima volta, ma ricorda che anche io vedo te», rivela l’importanza della bellezza per entrambi, ma anche la seduzione dell’oscurità e del ruolo che l’arte può e deve avere nel mostrare le parti meno rassicuranti dell’essere, soprattutto oggi che il buonismo dilagante e il politicamente corretto fanno virare la letteratura e le arti figurative verso un Bene epurato di qualsiasi problematicità.
Eppure, «La Pittrice e il Ladro» è anche la storia di un mistero, poiché dopo aver rubato le due tele (bellissimo «Il Canto del Cigno», cercatelo in Rete) sotto effetto di un pesante narcotico, Bertil dimentica quale uso ne abbia fatto e solo sul finale, con un inatteso colpo di scena metanarrativo, una delle due opere verrà ritrovata, ispirando l’ultimo quadro della nuova esposizione, in cui Barbora raffigura sé stessa abbracciata al proprio modello al posto dell’iniziale soggetto, la sua ragazza di allora.
Quadri in corso d’opera, riprese adolescenziali, voci fuori campo e interviste improvvisate, disegni dell’autrice e primi piani iperrealistici, come lo stile di pittura rappresentato: la grammatica del film è composita ma mai visionaria o frammentaria, tenendo fede a un registro rigoroso e formalmente ineccepibile, in cui la mano del regista è quella di un direttore d’orchestra discreto ma ubiquo, presente più all’inizio e alla fine delle riprese che non durante il loro svolgimento.
Sarebbe stato molto facile scendere nel didascalico, raccontando i traumi d’infanzia di Bertil, alla base dello scatenamento delle sue pulsioni masochistiche, o il legame sviluppatosi con Barbora, vittima anche fisica di una relazione violenta, ma il documentario calca un’altra strada, quella dell’indagine artistica ed esistenziale.
Quando l’attuale compagno dell’artista (e suo nume tutelare, è giusto ricordarlo) le dice che è strano non si sia mai interrogata criticamente sulle conseguenze che il rapporto con Bertil avrebbe potuto procurarle, essendo chiaramente un soggetto incapace di prendersi cura di sé stesso, lei risponde di non avere questo tipo di atteggiamento nei confronti di tutti gli esseri umani fragili che ritrae, ma solo verso quelli che sono degni di una particolare attenzione estetica.
La crasi dell’ultima tela, l’abbraccio ideale ed estetico che cancella ogni giudizio morale col pathos della condivisione, mette un accento originariamente inesistente al titolo: «la Pittrice è il Ladro», poiché ogni artista ruba (mimeticamente ed espressivamente) la sofferenza di chi o cosa rappresenta, e al tempo stesso da questo furto si sente derubata: ogni opera d’arte è un plagio condiviso fra l’autore del furto e la sua vittima, che lo accetta in pegno dell’immortalità.