Il nichilismo e i giovani

da | Mag 15, 2023 | IN PRIMO PIANO

Dal bullismo, alla sua protesi digitale (cyberbullismo), passando attraverso l’abbandono scolastico, l’hating in tutte le sue declinazioni, il revenge porn e le baby gang, l’adolescenza non è più soltanto il luogo delle pulsioni sessuali incontrollate e del rifiuto dell’autorità, ma anche il teatro di una nuova forma di nichilismo, consonante con la crisi ecologica e la rivoluzione tecnologica (totalizzante) in atto.

Com’è noto, i lobi della razionalità (quelli frontali) arrivano a maturazione solo a 20 anni, quindi sino ad allora sono l’irrazionalità e gli istinti a guidare i passi dei più giovani, ma il fattore cardine del Nuovo Millennio, per spiegare il neo-nichilismo giovanile, è la scomparsa del futuro, non percepito più come una promessa ma come una minaccia che, a causa della sua indeterminatezza, trasforma il lavoro in un ricatto sociale e precipita gli adolescenti in quello che Galimberti definisce «l’assoluto presente».

Se il futuro, come visto, è stato abrogato e il Passato non viene più visto come radice d’appartenenza e/o bagaglio esperienziale, resta l’unidimensionalità della cronaca che ridefinisce i concetti di tempo e spazio: come acqua da una tubatura rotta, i dati si moltiplicano viralmente a scapito d’uno spirito critico incapace di decodificarli, o inserirli nel giusto contesto.

Non è certo più la politica un valore di riferimento per le nuove generazioni, disinteressate alla militanza attiva e in fuga dalle urne elettorali, prigioniere tra l’altro di una narrazione ancora inquinata da dinamiche ideologiche novecentesche, e nemmeno la religione, in pesante crisi di consensi, nonostante l’astuta manovra di marketing messa in atto dall’attuale pontefice per svecchiare la Chiesa di San Pietro: sembra che l’unico generatore di valore simbolico rimasto sia il denaro.

Ma torniamo alla matrice del termine nichilismo, coniato per la prima volta nella seconda metà dell’Ottocento dallo scrittore russo Turgenev, e poi perfezionato da Nietzsche che con l’accezione di «nichilismo attivo» intendeva: «la promozione e l’accelerazione del processo di distruzione degli ideali tradizionali, per rendere possibile l’affermazione di nuovi valori», una sorta di trasposizione filosofica della frattura dei tabù secondo Freud, che consentirebbe alla società di compiere un balzo in avanti.

Il nichilismo si fonda (o affonda) su tre principali direttive:

  1. La mancanza di «scopo» (dal greco «scopeo», e cioè il guardare a uno specifico bersaglio), figlia del venir meno a livello individuale di un credo ideologico, e a livello sociale della dimensione di indirizzo politico;
  2. La mancanza della risposta al «perché?», in un’epoca storica in cui il mezzo ha divorato il fine al punto da assumerne l’identità, e in cui l’ontologia ha finito col corrispondere all’estetica;
  3. La mancanza dei vecchi valori che, stando alla precedente definizione nietzschiana, dovrebbero introdurre una sostituzione virtuosa con quelli nuovi, che invece latitano, secondo la compiuta e quanto mai pertinente affermazione di Hölderlin: «Che più non son gli dèi fuggiti, e ancora non sono i venienti».

La mancanza di scopo, di risposte ontologiche e il vuoto affettivo dei valori, introducono l’elemento patologico, l’autolesionismo e il cupio dissolvi, la cultura (o meglio l’analfabetismo) della droga, e l’atto violento come unico antidoto al sentimento d’impotenza che anima le nuove generazioni.

Ma facciamo un passo indietro.

Secondo la psicoanalisi tradizionale, le mappe cognitive, ovvero il modo in cui un bambino conosce il mondo, e le mappe emotive, ovvero il modo in cui il mondo risuona emotivamente dentro di lui, si formerebbero nei primi sei anni di vita, mentre le neuroscienze ne hanno abbreviato il lasso temporale portandolo a tre anni; questo vuol dire, paletti cronologici a parte, che l’identità di una nuova vita non è istintiva ma culturale, e si fonda sull’attenzione che riceve dai propri genitori e, più in generale, dalle figure affettive di riferimento.

È in questi primi anni che il mondo si svela agli occhi del bambino attraverso il principio di casualità e quello di non contraddizione: nel primo caso, se si apprende che a una determinata causa si lega una determinata conseguenza, si terrà a bada lo spavento dato dall’incertezza (ad esempio, se io capisco che al lampo segue il tuono, non avrò più paura quando sentirò la terra tremare durante un temporale); nel secondo, se io associo ad un oggetto la funzione per cui è stato concepito e quella per la quale è riconosciuto socialmente, non compirò più il cortocircuito di utilizzare, ad esempio, un coltello o un bicchiere come un’arma.

Sempre le neuroscienze hanno stabilito che il dialogo autentico fra figli e genitori finisce a 12 anni, e da lì in poi un adulto può sperare di stabilire un contatto con la propria prole solo attraverso l’esempio dato; ovviamente in una società in cui le famiglie sono sempre più ristrette, numericamente parlando, e nonni e zii sono stati sostituiti nella maggior parte dei casi dalle badanti o dalla tecnologia, la soglia d’attenzione dedicata ai più piccoli si abbassa pericolosamente, come la percezione che quest’ultimi hanno di se stessi.

Quando, veicolata dagli ormoni, arriva la «crisi» adolescenziale (dal greco «Krino», e cioè distinguere/scegliere), si mette in discussione la propria visione del mondo, ricercando nell’autorità l’autorevolezza, ed è in questa fase che l’apprendimento (ogni tipo di apprendimento) avviene per imitazione e fascino dell’educatore: lo stesso Platone afferma che la conoscenza non può che avvenire tramite l’erotica, e cioè che senza colpire affettivamente un ragazzo non si può entrare culturalmente nella sua testa, e gli fa coro il cattolicissimo Paolo di Tarso, dicendo che non si entra nel sapere se non tramite l’amore.

In un sistema pedagogico che ha sostituito all’educazione la semplice istruzione e, sul calco del pragmatismo americano di ultima generazione, alla considerazione soggettiva del discente, la semplice valutazione delle prestazioni, non si può che fabbricare dei «gladiatori disperati», come li definiva Pasolini nella sua analisi del conformismo di massa.

Si è diffusa, negli ultimi anni, una nuova forma di psico-apatia, e cioè di pigrizia mentale, che nega il principio kantiano di riconoscimento naturale fra Male e Bene, e così non c’è alcuna differenza per alcuni giovani fra un litigio e un omicidio, o fra l’amore e lo stupro: a gelare il sangue ai criminologi non sono più solo gli atti violenti, ma l’indifferenza che ne colpisce i giovani agenti appena dopo averli compiuti.

Spugne non più in grado di assorbire la realtà «aumentata» (in senso etimologico) dalla tecnologia, e inquinate dall’iperstimolazione che ne inibisce l’ozio creativo, le giovani mente non verranno di certo salvate dall’intelligenza convergente su cui si fonda la tecnica (e cioè, dato un determinato problema, trovare la soluzione) ma da quella divergente (occorre riformulare il problema).

Il ruolo didattico-pedagogico di insegnanti e genitori diviene sempre più centrale e va rifondato a livello sistemico, anche attraverso dei patti educativi, se si vuole governare la crisi di cui sopra per formare uomini e non funzioni patologiche.

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