Risale al 7 maggio scorso l’ennesimo massacro avvenuto, manco a dirlo, in quella roccaforte repubblicana favorevole al libero uso delle armi, che è il Texas, e precisamente ad Allen, non lontano da Dallas, storico teatro del celebre (o famigerato) omicidio Kennedy, datato 1962.
Il presidente Biden, allarmato da un fenomeno ormai così diffuso da divenire parte del folclore statunitense (soprattutto al Sud), nonché genitivo di quel turismo del macabro che rasenta il più osceno voyerismo, ha invocato il divieto quantomeno delle armi d’assalto, e un più attento controllo del background dei futuri fruitori: dall’inizio dell’anno, infatti, sono già 200 le sparatorie avvenute in pubblico con vittime negli stati Uniti e, al di là delle singole motivazioni, il rischio emulazione è altissimo.
Già Michael Moore aveva evidenziato il legame profondo fra questa pericolosa, e vertiginosa, tendenza e non tanto il libero esercizio della difesa personale quanto la paura del crimine in sé, al punto che, soprattutto nel Nuovo Millennio, sembrerebbe essersi rovesciato l’assunto alla base della novecentesca corsa gli armamenti e cioè, non «più armi meno scontri» ma «più armi più scontri».
Ma di recente, sembra che questo fenomeno abbia superato i confini statunitensi incuneandosi nel ventre dell’ex regime comunista, portando all’attenzione pubblica una tendenza che forse non è più solo culturale ma trasversale e, nello specifico, prepuberale.
MERCOLEDI’ DI SANGUE A BELGRADO
Forse possiamo immaginarlo alla maniera del montaggio post-moderno e non cronologico di Gus Van Sant su «Elephant»: sono le 8 42 del 3 maggio quando il Commissariato Centrale della Polizia di Belgrado riceve un’inquietante telefonata con una voce adolescente che dice: «sono Kosta Kecmanovic. Ho 13 anni. Venite alla scuola Ribnikar, ho sparato ai miei compagni […] si, ci sono dei morti».
I morti saranno nove, otto compagni di classe più il guardiano dell’Istituto, l’affabile e appassionato di calcio Dragan Vlahovic, mentre in due si sono salvati, il primo perché nascostosi sotto i cadaveri per poi sgattaiolare fuori dalla finestra e la seconda perché al momento della strage si trovava in un’altra classe, mentre fra i feriti (6) c’è anche la professoressa Tatjana Stevanovic, colpevole (si fa per dire) di aver somministrato un’insufficienza a Kosta in Storia.
Tutte le vittime, e il killer, sono fra i 12 e i 14 anni (tranne il custode) e sette su nove frequentavano lo stesso corso dell’omicida, che aveva già cambiato classe una volta e stava cercando di spostarsi nuovamente in un’aula dove aveva tre suoi amici, e questo perché, a parte la recente insufficienza, era uno studente modello, con ottimi voti in tutte le materie, e una naturale predisposizione per i numeri che gli era valsa l’opportunità di partecipare alle Olimpiadi di matematica, fattori sufficienti a relegarlo nel ruolo di nerd, e a subire un bullismo psicologico che l’aveva nel tempo emarginato.
I fattori degni di interesse (patologicamente parlando) sono tre:
- Il padre di Kosta, Vladimir Kecmanovic, stimato radiologo attualmente sottoposto a un fermo per spiegare come abbia fatto suo figlio a conoscere la combinazione della cassaforte dove erano custodite le armi successivamente usate nel massacro, porta regolarmente suo figlio al Poligono dall’età di 12 anni per imparare a sparare, e con risultati davvero ottimi visto che l’adolescente ha freddato il custode Dragan da 14 metri scaricandogli addosso ben quindici colpi della semi-automatica Cz-99, calibro 9 millimetri. Nello zaino di Kosta, al momento della strage, oltre alla semi-automatica, c’erano un’altra pistola, due caricatori da 18 colpi pieni e tre bottiglie di benzina da lanciare contro il portone per chi avesse voluto eventualmente ostacolarne l’operazione prima del suo compimento. Alla fine della giornata di sangue, si conteranno a terra ben 57 bossoli ma il killer si fermerà a «sole» nove vittime, rispetto alle 15 preventivate, senza mai salire al primo piano della scuola, come aveva prestabilito, per poi chiamare le forze dell’ordine e autodenunciarsi;
Nonostante le armi utilizzate fossero legittimamente detenute e registrate, resta da accertare la responsabilità del Poligono nel permettere a un dodicenne l’ingresso alla struttura, per quanto vigilato (si fa per dire) dalla figura paterna, e quella di quest’ultimo nel preferire un apprendistato stile Gomorra piuttosto che lo sport, la caccia o la pesca e via dicendo. Responsabilità equamente suddivisa con la madre, ovviamente, scienziata e professoressa di microbiologia;
- Ha fatto molto scalpore il livello socioeconomico del killer e il luogo teatro degli eventi, il più rinomato istituto elementare della Capitale, in pieno Centro, a due passi dall’Hotel Hilton e non distante dal tempio di San Sava, la chiesa ortodossa più famosa della Serbia: nonostante la brutta architettura d’eredità socialista, la scuola Ribnikar (intitolata all’omonimo giornalista) ospita i figli della miglior borghesia nazionale, come professionisti, calciatori e pallavolisti di fama, e quindi non si può ricorrere all’abusata equazione povertà sociale=crimine, per descrivere il massacro di Belgrado, anche tenuto conto del livello finanziario dei genitori di Kosta, un radiologo stimato e una scienziata e docente di livello;
- L’ultimo elemento degno di considerazione, sempre dal limitato punto di vista di un Atlante di patologia criminale, è la pianificazione del massacro, che andava avanti da almeno un mese, con tanto di lista delle vittime (Primary Target) e itinerario da seguire vergato in tremula grafia su due fogli A4, per non parlare del non trascurabile fattore che il giovane Kosta non ha ancora compiuto 14 anni (lo farà tra pochi mesi), e quindi non è penalmente perseguibile, ed ora si trova fra le pareti di una Clinica psichiatrica e non fra quelle perimetrali di un Penitenziario.
Virtuoso di Fortnite (gioco «sparatutto» per definizione), al momento della cattura indotta il baby killer non ha mostrato alcun pentimento per il gesto compiuto, dichiarando di «essere uno psicopatico e di volersi solo riposare» ma, dietro l’immensa tragedia delle vittime e dei famigliari, si apre una riflessione che punta direttamente al conflitto russo-ucraino e all’influenza che un simile e continuato evento possa avere sulle giovani menti dell’ex blocco sovietico, unita all’incapacità trasversale di ogni adolescente contemporaneo a saper scindere il reale dal virtuale, trasformando la realtà in un videogame. E viceversa.
Forse, mentre si analizzano gli effetti immediati e le cause pregresse della guerra in atto, cercando di tracciare i possibili scenari cui si sta andando incontro, bisognerebbe anche studiare i danni psichici che tale piaga collettiva sta seminando fra i ragazzi, a volte incapaci di assorbire in modo critico il flusso canceroso di informazioni provenienti da un Fronte mai così vacuo e, al tempo stesso, mai così tangibile.