Hunger: la lotta di classe fra i fornelli

da | Apr 26, 2023 | MONDOVISIONE

Per anni, nonostante l’Italia ne sia ai vertici delle eccellenze mondiali, la ristorazione e per estensione l’enogastronomia non hanno trovato cittadinanza nel cinema (tranne rari e citatissimi casi, come «La Grande Abbuffata» di Ferreri), ma il nuovo millennio, assecondando la reality-mania del cibo in Tv, il diluvio di foto close-up su Instagram e la food-diffusione virale sui social, ha partorito pellicole come «Sapori e Dissapori», «Il Sapore del Successo», «Chocolat», e i più recenti «The Menu» e «Boiling Point», per non parlare del successo della serie «The Bear» su Disney+.

Compiendo un’astuta manovra commerciale in grado non di anticipare una tendenza ma di consumarne la scia fino alla saturazione, Hollywood e dintorni hanno trasformato i cast in brigate, arrovellandosi per infil(z)are nei sempre più elaborati menu, trame in grado di soddisfare i palati sempre più esigenti dei fruitori, ormai tutti chef mancati o critici in incognito (anche da sé stessi).

Sul morente canto del cigno di questa end-o-gastronomia, si inserisce «Hunger», il film thailandese disponibile su Netflix dall’8 aprile 2023, che annovera fra i suoi protagonisti Chitimum Chuengcharoensukyng, più nota in patria come «Aokbab» (Aoy), la star Nopachai Chaiyanam (chef Paul) e Gunn Svasti Na Ayvolhya (Tone), nipote del vero e celeberrimo, almeno nel sud-est asiatico, chef McDang.

TRAMA

Aoy co-gestisce il ristorante di famiglia nella Bangkok vecchia ed è la regina dei noodles (in thai, padsee) quando un giorno Tone, sous-chef del famoso Paul che dirige «Hunger», una brigata di haute cuisine a domicilio, la nota maneggiare il wok e decide di invitarla a cucinare per loro «ai piani alti».

Dopo qualche paranoia di troppo, e stanca della miseria del suo chiosco, Aoy raggiunge Tone fra i lucenti fornelli di Hunger e viene provinata da Chef Paul in persona, che è alla ricerca di un’esperta friggitrice di carne per un imminente evento di altissimo profilo.

Passato il test, reso ancor più crudele dai dialoghi in lingua madre sottotitolati, la giovane (non più) regina dei noodles, entrerà a far parte di un ambiente che si nutre (nell’etimo) di tutte le ambivalenze e contraddizioni di un mondo come quello asiatico che si definisce dal contrasto fra tradizione e innovazione, e che a causa delle recenti ed esponenziali ricchezze generate dalle tecnologie ha creato degli abissi culturali in grado di produrre inaudite violenze e forti disagi sociali.

Dopo l’iniziale venerazione, Aoy conoscerà il lato oscuro dello chef Paul e si distaccherà dalla sua brigata inaugurando, grazie ai fondi dell’investitore Tof, il suo «The Flame», ristorante di grido che la vedrà mulinare il wok fra le roventi e spettacolari fiamme dei fornelli, ma la sfida col suo mentore, combattuta fra colpi di scena e provocazioni che poco c’entrano col cibo in senso stretto, la convinceranno a riparare sulla famiglia e su un’idea di ristorazione lontana dalle luci della ribalta.

«WOK» IN REGRESS

Nonostante «The Hunger» sia troppo lungo ed esaurisca l’iniziale carica concettuale in un epilogo fatto (solo) di spettacolari scene dai colori saturi, l’opera è piena di frasi di sicuro effetto come: «perché vuoi cucinare per me?», «perché voglio essere speciale» o «i veri vincitori sono quelli che hanno sempre più fame», che ben declinano le infinite varianti semantiche del termine «fame» (Hunger, Ndr).

Aoy, che scopre le umili origini dello Chef Paul, e che ne condivide inizialmente il marxismo culinario, apprendendo come il guru acquisti le materie prime dei propri altolocati banchetti solo dalle persone più povere del paese, capirà presto però che l’uomo è disposto a tutto pur di non perdere lo status faticosamente guadagnato in anni di servile apprendistato al potere.

«Io cucino solo per chi ha i soldi», sibilerà a denti stretti il credibilissimo Nopachai Chaiyanam, in grado di distruggere con una frase tutta la retorica nazionalpopolare della sua allieva: «Cucinare con amore lo dice solo chi non può sfuggire alla povertà. Ci vuole grinta in cucina, non amore.»

Il finale buonista, e un po’ scontato, simile non per banalità ma per banalizzazione a quello di The Menu di Mylod, non riesce a rovinare le due peculiarità della pellicola: da una parte abbiamo la lotta di classe asiatica che salda a  categorie politiche novecentesche la povertà 3.0 generata dalla new economy, e che produce un meraviglioso (cinematograficamente parlando) contrasto fra i toni desaturati degli alveari domestici post-industriali e quelli iper-saturi del lusso più ingiustificato, il tutto secondo il minimo comune denominatore della domotica, dall’altra la categoria assoluta del successo, non geo-localizzabile in Oriente o in Occidente, ma ubiquo e a-temporale e in grado di esaurirsi in segmenti sempre più ristretti confinanti col loop del buco nero.

L’innovazione a tutti i costi non è mai dialettica perché si costruisce sul rifiuto aprioristico del passato e contiene in sé i germi di un’inevitabile autodistruzione, laddove il fuoco dei fornelli di Aoy è invece la fiamma di trasformazione che conserva ciò che distrugge e lo evolve in passione senza tempo.

«Hunger» è un film che condanna lo Zeitgeist tecnologico, in grado di infettare le categorie, del sapere e del sapore, con una fame fantasmatica di approvazione scissa dalla materia prima e dalla tradizione, una fame ontologica che non ha niente a che vedere col cibo ma solo con la sua rappresentazione sociale, al punto che il protagonista e guru prezzolato definirà «merda» proprio il simbolo eterno del lusso in cucina, e cioè il caviale.

Ai poveri la fame passa non appena mangiato, mentre ai ricchi non passerà mai, ma dietro questa bulimia di potere si celano tutte le aberrazioni della modernità.

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