Prendete un regista poliedrico e un po’ discontinuo (quello che in gergo cinematografico, in chiave non proprio celebrativa, si chiama «shooter») e cioè il Mark Mylod conosciuto soprattutto per aver girato svariati episodi di «Game of Thrones» e «Succession», emulsionatelo in fase di scrittura a Seth Reiss e Will Tracy (suo collaboratore proprio in Succession), e alla fotografia con Peter Deming, sodale di Lynch nel dittico «Strade Perdute» e «Mulholland Drive», quindi aggiungete un cast di livello come Ralph Fiennes, Ana Taylor-Joy, Nicholas Hoult e John Leguizano e saltate il tutto con una trama che unisca alla black comedy un po’ di horror e giallo à la Agatha Christie: il risultato sarà «The Menu» (2022), attualmente disponibile su Disney+.
Nell’iniziale progetto, nei panni della bella Margot doveva recitare Emma Stone e in cabina di regia al posto di Mylod avrebbe dovuto esserci Alexander Payne, ma Ana Taylor-Joy non fa affatto rimpiangere l’eroina di La La Land e se dalla cucina di The Menu proviene un po’ di fumo non è di certo generato dalla parte attoriale, ma da una trama che forse esagera nell’agglutinare troppi ingredienti.
TRAMA
Tyler e Margot, coppia irregolare, sale su un traghetto insieme a un manipolo di investitori, un attore sul viale del tramonto con la starlette di turno e la prezzolata critica di una prestigiosa rivista enogastronomica, accompagnata dal suo caporedattore, per raggiungere un’isoletta del Pacifico e cenare al sontuoso Hawthorne (e l’omonimia col celebre scrittore americano non è casuale), il ristorante gourmet guidato dal guru della cucina molecolare Slowik.
Accolti dalla sua assistente, asiatica e integerrima, gli invitati raggiungono il ristorante dello chef dopo aver visitato l’affumicatoio scandinavo e sbirciato il suo esclusivo cottage, il cui ingresso è stravietato a tutti, fino a sedere nella sala vista oceano dallo stile minimale in cui una brigata di sous-chef e assistenti personali servirà loro una cena da 1200 dollari a persona.
A completare il quadro degli astanti, la madre alcolizzata di Slowik, che si limiterà a bere per tutta la serata senza toccare cibo, e una coppia blasé di miliardari che ha raggiunto l’isola su uno yacht privato e che cena lì per l’undicesima volta.
Scandite dall’atono battito di mani dello chef e dal militaresco «Si Chef!» della brigata, le portate si succederanno con descrizioni formali e inquadrature close-up, finché alla ricercatezza un po’ fastidiosa delle micro-porzioni non si sostituiranno dapprima i peccati degli avventori (alcuni dei quali tracciati da una stampante 3D su dei tacos), quindi i ricordi piuttosto tragici di Slowik.
Il sangue, inatteso e dissonante, inizierà a scorrere fra tè al bergamotto, emulsioni e riduzioni, spume e polveri, trascinando i mediocri e piccolo borghesi invitati in un incubo da cui sembra impossibile uscire; tra suicidi e omicidi, una mutilazione e un tentativo di fuga abortito, il menu diverrà ancor più concettuale di quanto anche il palato sopraffino della critica poteva aspettarsi e, mentre il finale, grottesco ma un po’ scontato, inizia a «scaldarsi», solo l’autentica Margot sembra destinata a salvarsi grazie alla semplice richiesta di un cheese-burger, che riporta per un attimo lo chef all’amore della cucina basica, senza alcun tipo di sofisticazione.
SE ESCLUDI IL CIBO TUTTO É EPIFENOMENO
«Se escludi il cibo, tutto è epifenomeno», faceva pronunciare a Michel Piccoli Marco Ferreri ne «La Grande Abbuffata», cult anni Settanta in cui i quattro protagonisti decidevano più o meno scientemente di suicidarsi mangiando («se tu non mangi tu non puoi morire»), e se in «The Menu» siamo ben lontani da simili vette narrative, va detto che il film di Mylod sembra chiudere l’ossessiva stagione di reality e film, libri e format enogastronomici che ormai da più di un decennio trasformano il cibo da semplice nutrimento a status symbol o oggetto di studi sociologici.
La recitazione antinaturalistica di Fiennes e quella invasata di Hoult (Tolkien; Mad Max Fury Road) che ne venera la sapienza gastronomica al punto di immolarvi la propria compagna e di farsene immolare, sono gli estremi entro cui si chiude il fascino di una borghesia disattenta e ignorante, preda della cinica nemesi di un cuoco stanco di cercare la perfezione per persone il cui palato somiglia a una morale dilatata e onnivora, esibizionista e vuota.
In un periodo storico in cui i ristoranti gourmet sono in grave crisi e non rientrano nemmeno delle spese di gestione (persino il lussuoso Noma danese, cui in parte il film si ispira), The Menu segna un rito di passaggio, un limite e una saturazione, perché se è vero che ricerca e passione hanno trasformato (giustamente) molti chef in maître à penser, è altrettanto vero che il lavoro sulle materie prime e il feticismo del chilometro zero (o zen, a seconda dei tipi di cucina) non devono scadere nell’astrattismo e nell’ornamentale, soprattutto alla luce di un futuro prossimo in cui il volto dell’alimentazione dovrà cambiare per sempre in funzione degli sconvolgimenti climatici e della demografia.
Il film di Mylod non approfondisce molto i personaggi, soprattutto Slowik, e affastella molti spunti in modo non uniforme (proprio come in un piatto poco riuscito) ma nella figura di Tyler, il food lover che crede di saper cucinare solo perché ha guardato centinaia di puntate di format dedicati, e in quello interpretato da Janet McTeer, la spocchiosa critica in grado di far chiudere un’attività solo grazie a un eloquio tanto elaborato quanto futile, si riassumono gli estremi di una società dello spettacolo enogastronomica destinata a implodere se non recupererà le proprie funzionalità.
Il fuoco dei fornelli è alchimia e trasformazione così come il gusto può diventare orfismo e memoria, ma la tradizione dovrà fare i conti con un nuovo tipo di fame, e le avanguardie, che sono storiche per definizione, non possono prescindere dalle patologie della modernità.
Forse dopo le più moderne performances artistiche, tipo l’azionismo viennese, converrebbe tornare al figurativo così come, dopo i vapori della cucina molecolare, basterebbe addentare un hamburger perché per destrutturare serve una struttura, e per mangiare bisogna aver fame.