Nel catalogo Netflix sul «fronte» bellico, e reduce da una vera e propria mattanza di Oscar (miglior film straniero; migliore fotografia; migliore scenografia e migliore colonna sonora), «Niente di nuovo sul fronte occidentale», coproduzione tedesca e americana ma teutonico fino al midollo, ridisegna le coordinate del cinema di guerra senza clamorose innovazioni stilistiche, ma con notevoli prove attoriali e con un’attenzione a scene e musiche che non poteva non colpire l’Academy.
Tratto dall’omonimo romanzo di Erich Maria Remarque (1929), dove l’autore descriveva in modo crudo ma lirico la sua personale esperienza nella Prima Guerra Mondiale, il soggetto è stato già trasposto a caldo da Lewis Milestone nel 1930, con una produzione russa e americana dal titolo: «All’ovest niente di nuovo», opera incensatissima dalla critica, e successivamente, nel 1979, con un film per la tv americana firmato Delbert Mann.
Ora è il tedesco Edward Berger a riprovarci, coadiuvato in sede di scrittura da Ian Stokell e Lesley Pattinson, con la fotografia di James Friend e le musiche sperimentali di Volker Bertelmann, anche se una particolare menzione va alle scene e ai costumi del duo Christian M. Goldbeck ed Ernstine Hipper.
Il paragone con l’infinito piano-sequenza di «1917» di Sam Mendes è tanto inevitabile quanto inutile, visto che in questo caso si tratta di un’opera dal taglio decisamente più classico, per quanto intensa e rigorosa, ma in realtà la pellicola di Berger ammicca più a classici come il kubrickiano «Orizzonti di Gloria» o al naturalismo dialettico di Malick ne «La sottile linea rossa».
TRAMA
Paul e tre suoi amici di liceo, eccitati dalla propaganda del proprio preside, ma anche infiammati dalla retorica politica che declama a caratteri cubitali la presa di Parigi e della Francia, si arruolano e vengono spediti in Champagne, proprio sul limite di quel fronte occidentale in cui a migliaia muoiono solo per guadagnare pochi metri.
Lo scontro dei quattro giovani con la realtà bellica, filtrata dall’ironia sottoproletaria del veterano «Kat», sarà durissima, fra esplosioni, morti, gelo e fango, in un’alternanza di primi piani e campi lunghi che ben restituisce l’idea di un teatro di guerra primitivo e spietato, distante dalle ovattate attese di «Torneranno i prati» di Ermanno Olmi; la sciarpa intrisa di profumo donata da una fuggevole ragazza a una delle reclute, che passa di soldato in soldato non appena il proprietario muore, diviene l’emblema di una generazione spezzata dalla miopia dei potenti, ben al sicuro nelle retrovie o in lussuosi treni, a cercare un armistizio cui il solo Erzeberger (Daniel Brühl) richiede rapidità affinché cessi la carneficina e un conflitto che ormai tutti in Germania considerano perso.
Fra alterne vicende, con la morte di 60 reclute colpevoli di essersi tolte troppo presto la maschera antigas, l’ingenuo furto per fame di un’oca che genererà in seguito una spietata nemesi, e le trattative fra i due governi che procedono a rilento fra cornetti «non di giornata» e un immorale lusso, l’intervento dei lanciafiamme e dei carri armati francesi Chamond, uniti all’irresponsabile e suicida attacco finale ordinato dal generale di origini prussiane Friederichs (proprio a poche ore dal cessate il fuoco), guidano il film verso un’angosciante spirale di morte e dissoluzione.
I RAGAZZI DEL ‘99
Girato in Repubblica Ceca, nel gennaio 2021, «Niente di nuovo sul fronte occidentale» ha usufruito di un set grande quanto quattro campi da calcio, spazzato da gelidi venti e piogge improvvise (il regista ha perso nel fango svariate paia di stivali), e nella scena più emotivamente coinvolgente, uno dei cameramen britannici non ha retto all’emozione ed è scoppiato a piangere.
Se è vero che «Salvate il soldato Ryan» ha rappresentato uno spartiacque nel cinema bellico, tanto da stabilire un prima e un dopo, e se è altrettanto vero che produrre e girare un war movie proprio in questo preciso momento storico può essere considerata un’abile strategia di marketing (e una strizzatina d’occhio agli Oscar), è altrettanto vero che non c’è nulla di compiacente o manicheo nel film di Berger, a dispetto di alcune critiche che lo accusano di scarso approfondimento dei personaggi o di dialoghi carenti: non dimenticherete facilmente l’atonale grugnito di Paul (un Felix Kammerer alla sua prima apparizione sul grande schermo) mentre corre incontro al nemico sguainando la baionetta o l’accetta, ormai dimentico di essere appena un ragazzo, o i paesaggi mozzafiato disegnati dalla fotografia di Friend, che ricordano le tele del pittore romantico Friederich, e che contrastano, con la propria impassibile bellezza, con la mota terra e sangue delle trincee.
Per la prima volta l’esercito tedesco non è l’organizzata e cinica macchina da guerra cui siamo stati abituati dalla cinematografia relativa alla Seconda Guerra Mondiale, ma uno sporco manipolo di improvvisati guerrieri cui la retorica nazionalista è scivolata via di dosso già dai primi corpo a corpo all’arma bianca.
L’enorme lavoro di ricerca effettuato dagli sceneggiatori e dal regista sugli epistolari della Grande Guerra, affiora nella biografia di Kat, calzolaio analfabeta che si serve di Paul per leggere le lettere inviategli da sua moglie, ma anche da piccoli dettagli, come infilare le mani nei genitali per evitarne l’assideramento, o indossare le divise che solerti sartine riciclano e riassemblano dai cadaveri, con macchine da cucito al ritmo di una vera e propria marcia militare: la faccia ricoperta di fango di Paul è quella anonima e universale dei ragazzi del (18)99, inviati al fronte da una classe politica infettata da una retorica ancora ottocentesca e incapace di comprendere il massacro che avrebbe prodotto (circa 17 milioni di morti), e forse la mancanza di profondità, storica e biografica, dei protagonisti è la scelta volontaria di un regista che ha voluto identificare in essi la mancanza di senso di ogni conflitto.