Il faro: la mitologia marina dei fratelli Eggers

da | Mar 24, 2023 | MONDOVISIONE

Che il newyorkese Robert Eggers avesse talento lo si era già capito dai tempi dello spettrale «The Witch» (2015) ed anche se «The Northman» (2022) appare più manieristico, «The Lighthouse» (2019) è sicuramente il fiore all’occhiello della sua breve ma già folgorante carriera.

Girato in bianco e nero e mai uscito nelle sale italiane, «Il Faro» è ora disponibile su Netflix, che ci permette di ammirare la crasi fra due attori ispiratissimi e una sceneggiatura originale firmata dallo stesso regista e dal fratellastro Max, che riscrivono la migliore letteratura fantastica nordamericana, visto che le citazioni/suggestioni disseminate nella pellicola sono più che altro visive.

Per apprezzare fino in fondo sia le atmosfere evocate da Eggers che le interpretazioni del duo Pattinson/Dafoe, il lungometraggio andrebbe ascoltato in lingua originale, visto che il primo ha studiato un dialetto del Maine rurale del XIX secolo, mentre il secondo il vernacolo dei lupi di mare dell’Atlantico, col risultato di una vertiginosa fiaba recitata convulsivamente fino al parossismo.

Le coordinate del cinema di Eggers si definiscono lentamente, come la silhouette del faro al momento dell’approdo, e si tratta dell’ancoraggio del fantastico (o del mitologico) alla più ferrea ricostruzione storica, senza lasciare al caso nessun dettaglio, in modo che l’effetto straniante ne risulti ancor più accentuato.

TRAMA

Thomas (o Ephrain) Howard decide di accettare il lavoro di guardiano del faro su un’isola abitata dal coriaceo ex marinaio Thomas Wake, claudicante Achab che inizia a vessarlo affidandogli le mansioni più umilianti e faticose che esistano, mentre un giorno, in preda all’ira per la stanchezza e per l’aver trovato il cadavere di un gabbiano nel pozzo per l’acqua potabile, egli ne uccide furiosamente uno, attirandosi una maledizione visto che, secondo Wake in quegli uccelli si nasconderebbero le anime dei marinai morti.

Il docile vento dell’Ovest muterà nel feroce mugghiare di quello di Nord-Est, e i due guardiani si troveranno a fronteggiare una spaventosa tempesta cui porre riparo solo con l’alcol e le reciproche confessioni; quando il fortunale cesserà, le provviste risulteranno danneggiate dall’umidità e ai due, che alternano momenti di rabbia a un’intimità quasi equivoca, non resterà che assaggiare il potente miscuglio di miele e trementina.

Thomas/Ephrain si lamenterà della cucina del suo superiore che in una leggendaria scena recitata letteralmente senza battere le ciglia, gli scaglierà contro un anatema degno del miglior Proteo, di una ricchezza linguistica assoluta, tanto che il giovane ne resterà irretito.

Fra apparizioni di sirene (reali o intagliate) e masturbazioni clandestine, visioni di morti ammazzati che evocano un doloroso passato, o che forse sono solo il frutto del delirio alcolico, la lanterna bruciante del faro, la cui visione ravvicinata il vecchio ex marinaio ha sempre negato ad Ephrain, diverrà per quest’ultimo un’ossessione e dopo l’ennesima lite furibonda, il mistero verrà forse svelato, con un epilogo aperto che trascina lo spettatore nel medesimo stato confusionale dei due protagonisti.

WHAT? WHAT? WHAT?

Ambientato in Canada, e precisamente a Cape Forchu, «The Lighthouse» è stato integralmente ricostruito in ogni suo dettaglio scenografico e non c’è stato alcun bisogno di ricorrere ad effetti speciali per il maltempo, visto che pioggia e vento hanno imperversato per tutto il periodo delle riprese; la colonna sonora, curata in parte dal Korden di The Witch, ha usufruito oltre che di fiati e archi destrutturati à la Hitchcock, anche della produzione originale di un nautofono, sulla base di ricerche effettuate da esperti della materia.

Per i dialoghi, la maniacale cura filologica di cui si è già detto, si è intrecciata con l’attenta rilettura di pietre miliari come Melville e Stevenson, ma anche delle opere di Sarah Orne Jewett, scrittrice che riprodusse nei suoi testi il dialetto di fine Ottocento di contadini e marinai del New England, da lei stessa lungamente intervistati.

Le citazioni pittoriche spaziano da «Ipnosi» di Schneider (1904), espressamente ripreso in una scena, fino al postino Joseph Roulin di Van Gogh (1888), cui chiaramente si è ispirato Eggers per il personaggio di Dafoe, ma quello che produce il maggiore impatto nello spettatore è il bianco e nero curato dallo storico sodale del regista, Jarin Blashike (candidato all’Oscar): a differenza di come si opera normalmente, e cioè girando a colori per poi virare in chiaroscuro, il film è stato eseguito direttamente in bianco e nero, e precisamente con la pellicola Double_x5222, in un antiquato formato 1.19:1, coadiuvato da un particolare filtro ciano in grado di accentuare i neri e le imperfezioni e con delle vecchie lenti Baltar, risalenti agli anni Trenta, montate su una moderna macchina da presa.

L’idea del film, di Max Eggers, ha espliciti riferimenti letterari, dall’omonimo racconto incompleto di Edgar Allan Poe, alla novella «Il Tempio» di un altro gigante della letteratura horror americana, e cioè H.P. Lovecraft, naturalmente passando attraverso la ballata del vecchio marinaio di Coleridge (il cui protagonista uccideva però un albatros e non un gabbiano), per non parlare del Mito di Prometeo, il cui fuoco rubato agli dei, rivive filmicamente nella lanterna del faro.

Eppure, i fratelli Eggers sembrerebbero essersi ispirati anche a un episodio di cronaca realmente accaduto nel 1801 e tristemente noto come «La tragedia del faro degli Smalls»: due guardiani del faro, entrambi chiamati Thomas, litigarono e uno dei due uccise l’altro deponendone il corpo in una cassa che i forti venti divelsero, rivelando il braccio accusatore della vittima che fece impazzire il suo assassino, al punto che da quell’episodio in poi si decise di alzare a tre il numero minimo dei guardiani dei fari in Nordamerica.

Rivisitazione del mito prometeico o lynchiana commistione fra realtà e onirismo, «The Lighthouse» può essere interpretato come una mise en abyme del personaggio Thoms/Epfrain, il cui oscuro passato di boscaiolo nasconde forse un segreto inconfessabile, e la figura del vecchio marinaio non sarebbe altro se non la sua coscienza che egli cerca di obnubilare tramite l’alcol e che riemerge attraverso fascinazioni letterarie, ricordi scomposti e una sensualità resa molesta dall’isolamento.

A supportare questa tesi sono i dionisiaci balletti dei due guardiani, pronti a virare in iraconde liti, e quel vertiginoso intreccio di corpi che li rende gli opposti lati, intercambiabili, della stessa medaglia: «non c’è niente di buono in due uomini che restano intrappolati da soli in un fallo gigante», ha dichiarato il regista che avrebbe persino voluto sfumare l’immagine del faro in quella di un membro eretto, ma la produzione ha ovviamente subito bocciato l’idea.

Metafora freudiana di omosessualità represse o allegoria marinaresca sul senso di colpa (intrisa di letteratura ottocentesca), «Il Faro» ci lascia attoniti sulle sponde muschiose dell’Atlantico, molestati dalle grida dei gabbiani, ad abbaiare quel «What? What? What?» che i due protagonisti si rivolgono contro nella scena epocale del film.

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