Da lungo tempo ormai televisione, giornali e social network vomitano a getto continuo immagini perturbanti tratte dagli scenari di guerra; carri armati e lanciarazzi, violenze sulle donne, torture e deportazioni di massa, ma anche nature devastate e città in fiamme, al punto che la «guerra lampo» più lunga della storia è penetrata anche nella cultura pop dei testi di Sanremo.
Eppure, un termine dal triste sapore novecentesco è tornato alla ribalta nelle ultime settimane, a causa di un editoriale del Washington Post e di un rapporto dello Yale Humanitarian Research Lab, ma anche dell’attenzione loro dedicata dalla stampa nazionale, e quel termine è «russificazione».
Secondo il documento, Putin, con l’aiuto di Maria Luova-Belova, presidente della commissione per i diritti dell’infanzia, avrebbe inventato un crudele piano pedagogico per prelevare i bambini ucraini dalle zone del Donbass e portarli in 43 campi fra Russia, Siberia e Crimea, ai fini di una sorta di rieducazione patriottica che ne cancelli la precedente identità per formare il perfetto cittadino, militare e devoto al nuovo zar e alla Grande Madre Russia.
I precedenti sono noti e innumerevoli, dal massacro biblico di Erode, passando attraverso il sequestro dei bambini cristiani da parte degli Ottomani per trasformarli in efficienti giannizzeri, per non parlare delle politiche di educazione forzata dei minori dei popoli indigeni da parte delle potenze coloniali, o della reintroduzione della schiavitù da parte dell’Isis; le cifre sono confuse ma si parla di oltre 6000 bambini deportati solo nel 2022 e, come ribadisce l’editoriale del Post: «[…] ciò è specificamente proibito dalla Convenzione delle Nazioni Unite sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio del 1948».
GENOCIDIO O RUSSIFICAZIONE?
Il già citato Trattato sul genocidio fu adottato nel ricordo delle atrocità naziste, compreso e soprattutto il piano di Himmler di rapire bambini della Polonia e collocarli in orfanotrofi tedeschi o in famiglie teutoniche e crescerli come «buoni tedeschi», che si configurò subito agli occhi degli osservatori e dei giuristi internazionali come rapimento di minori, e la patetica giustificazione di «aver trattato bene le proprie vittime» non bastò a lenire la condanna del gesto.
Già dal maggio scorso, Putin aveva emesso un decreto che facilitava per i russi l’adozione dei bambini ucraini, ma a configurare la recente operazione come genocidio è «l’intento di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso», visto che il Trattato vieta «il trasferimento forzato di bambini da un gruppo all’altro (articolo II, comma 9)».
Ora Save the Children chiede di istituire una Commissione indipendente di inchiesta, anche perché, come evidenzia il rapporto dello Yale, si tratta di un sistema complesso in cui i genitori dei bambini deportati forniscono formalmente il proprio consenso, ma sotto costrizione e promessa che ai propri figli vengano garantiti cibo e condizioni generali di sicurezza che al momento loro non possono fornire.
I primi casi documentati risalgono al febbraio 2022, gli ultimi al gennaio 2023, e il range anagrafico dei minori oscilla fra i 4 mesi e i 17 anni: pur non avendo riscontrato tracce di maltrattamenti fisici, di abusi sessuali o violenze, il 78% di questi ex-campi estivi è destinato a una rieducazione culturale, patriottica e militare attraverso libri, fucili e testi di storia la cui faziosità è scontata.
In particolare, per i campi di Artek (Crimea) e Medvezhook, e in generale per il 10% delle strutture il ritorno è stato sospeso a tempo indeterminato, ma gli ulteriori ostacoli che si frappongono fra le famiglie e i rispettivi figli sono l’assenza di comunicazione coi gerenti dei campi, e il fatto che a ritirare i minori possano essere soltanto i genitori e, se da una parte molte famiglie ucraine non hanno soldi sufficienti per coprire le spese del viaggio fino in Russia, dall’altra la legislazione del loro paese impedisce agli uomini fra i 18 e i 60 anni di lasciare il paese (considerato che non viene accettata la rappresentanza legale di nonni o altri parenti, il recupero dei minori rasenta l’impossibile).
La Convenzione delle Nazioni Unite del 1948 non è l’unico trattato internazionale ad essere chiamato in causa dagli esperti di diritto transnazionale, visto che il genocidio (o russificazione) putiniano violerebbe anche la risoluzione 1261 del 1999 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che etichetta come grave violazione il sequestro di bambini, ma anche la Convenzione di Ginevra del 1949 che ribadisce il principio di tutela rafforzata dei bambini, soprattutto nella delicata situazione dei teatri di guerra.
Eppure, negli ultimi anni, oltre all’esodo di profughi nel Mediterraneo con conseguenze spesso tragiche soprattutto per i minori, anche dall’altra parte dell’Atlantico, prima sotto l’amministrazione Obama, che varò nel 2015 il «Priority Juvenile Docket», che consentiva ai minori che cercavano rifugio negli Stati Uniti di trovare un avvocato che li sostenesse entro 12 mesi dall’ingresso, e poi con Trump col discutibile programma «Remain in Mexico», il muro (reale o burocratico) con cui l’Occidente si difende dagli esodi dei paesi meno fortunati, diviene invalicabile.
La separazione dei minori dalle famiglie in fuga dal Centro America per problemi di indigenza, ma soprattutto per sfuggire al crudele arbitrio delle gang, è stata una strategia trumpiana che ha ricalcato il medesimo piano di «americanizzazione» dei Nativi nel XIX secolo, strappati alle proprie famiglie ed educati a divenire dei «buoni americani» in appositi collegi di stampo cattolico, affinché apprendessero i principi-base della proprietà privata e del Capitalismo.
Al di là delle differenze di natura ideologica, la «russificazione» o «americanizzazione» dei minori, sono la triste testimonianza di un genocidio culturale che ricalca l’eugenetica nazista e il razzismo biologico di cui tanto si è scritto nel Novecento, tanto più grave perché cerca di inscrivere nel corpo stesso dell’innocenza un patrimonio genetico fittizio, ridisegnando di nuovo a tavolino i confini del mondo, come avvenne per l’Africa coloniale, crimini per cui l’Occidente ha appena finito di scusarsi ma che riemergono con buona pace dell’Europa e della Nato.
L’urlo espressionista di Munch si ricrea nei campi rieducativi russi o nelle icebox della frontiera meridionale degli Stati Uniti, ogni qualvolta un bambino disperato e senza voce che lo rappresenti ci ricorda il verso di Rilke: «tutto l’orrore del mondo non è in fondo che l’inerme che ci chiede aiuto».