L’evoluzione digitale e gli scenari aperti dall’intelligenza artificiale (generativa ma non creativa) si coniugano alla devastazione ambientale e alla crescente sensibilità bio, nel costituire nuove figure professionali che richiedono specifiche competenze: si va dagli ingegneri e specialisti di software e web marketing ai data scientist, disegnatori e stampatori 3D, ma anche agli esperti di sistemi operativi da remoto, di cyber security e di logistica automatizzata.
La campagna muta in orto sociale, agri-asilo o fattoria didattica, mentre si cercano bioingegneri esperti in rinnovabili o in edilizia compatibile, chimici del riciclo, creativi del recupero e dell’agriturismo, ma anche figure sociali in grado di trasformare l’agricoltura in esperienza formativa per detenuti, tossicodipendenti e disabili: nascono orti bio-solidali che favoriscono l’inclusione contro il caporalato e il lavoro nero nei campi, per non parlare delle grandi aziende che promuovono orti limitrofi le proprie sedi per «rigenerare» l’entusiasmo dei dipendenti attraverso una sana sgobbata con vanga e zappa in mano.
A fianco a queste nuove figure professionali, e a quella (inflazionatissima) dello chef, neo-patinato da talent e show-cooking, c’è un buco di 100 000 trattoristi, potatori, fresatori, tornitori, saldatori, manutentori e via dicendo (dati Coldiretti), ma anche sarti, modellisti e artigiani di tutti i tipi, per non parlare della vera e propria voragine da 150 000 addetti a cucine e tavoli in un settore, quello della ristorazione, in crisi di domanda come non mai.
Le fughe di cervelli ma anche di braccia rubate all’agricoltura (la nostra), sono il risultato di una nazione incapace di progettualità, schiacciata dalla pressione fiscale e per niente concentrata sui giovani e sulle politiche famigliari, o il problema è endemico e transnazionale?
IMITAZIONE E VELENI
Un ragno a dodici zampe col numero 4 tatuato sulla schiena, capelli lunghi, felpe nere con cappuccio e pantaloni a scacchi: è questa la divisa ufficiale dei «Ryodanotyc», pazzi o ragni di Ryodan, una nuova sottocultura giovanile definita dai suoi stessi adepti «Ryodan ChVK», con l’acronimo che sta per Chastenaya Voennaya Companja, e cioè compagnia privata militare, in riferimento ai mercenari Wagner impegnati attualmente in Ucraina.
Ispirati ai cattivi dell’anime giapponese «Hunter x Hunter», i «ragni» si sono resi protagonisti di una rissa il 19 febbraio scorso in un centro commerciale di Mosca, ed anche se sembra si siano limitati a difendersi dalle prese in giro di alcuni teppisti sportivi, la loro reazione tutt’altro che goffa ha spopolato in Rete creando un fenomeno imitativo in Russia, Bielorussia ed Ucraina, al punto che lo stesso Cremlino se n’è occupato, ma anche la polizia ucraina, con blocco di canali Telegram dedicati, arresti in massa (cautelativi), e strumentalizzazioni che ricordano la strategia della tensione negli anni di piombo.
In realtà, i ragni si smarcano dalle accuse di fomentare dei fight club urbani, sostenendo che a subire le violenze (e spesso da gruppi di chiara ispirazione neonazista) siano proprio loro, e spesso anche solo per la concordanza degli abiti. Il rischio, come avvertono molti sociologi, è che reprimendo e demonizzando il fenomeno, lo si renda virale, trasformando in idoli e martiri degli adolescenti che hanno semplicemente risposto in modo imitativo (e da un anime stavolta, non dalla solita rockstar o attore blasonato) all’embargo culturale che la Russia ha operato ai danni delle nuove generazioni, bloccando i voli per l’Europa, vietando Hollywood, Netflix, Spotify, concerti, Coca Cola, McDonald’s e via dicendo.
Una sorta di fuga verso una violenza immaginaria (quella nipponica degli anime) che opera la catarsi verso quella reale che va in scena da più di un anno, in un paese in guerra che ne ha bandito il vocabolo a favore di più ipocrite e consolatorie perifrasi.
Dalla fine del novembre 2022 ad oggi, per passare da veleni imitativi a quelli concreti, oltre 900 studentesse iraniane sono state intossicate a scuola, attraverso misteriosi lanci di capsule contenenti del gas N2, a base di azoto e usato nell’industria o come fertilizzante agricolo; mentre il Governo, nella persona del presidente Ebrahim Raisi, chiede un’indagine rapida sull’accaduto (rapida ma in estremo ritardo), denunciando un fantomatico «piano dei nemici esterni dell’Iran», molti iraniani pensano invece si tratti di attacchi orchestrati da gruppi endogeni di terroristi religiosi che vogliono spingere le ragazze, terrorizzandole, a lasciare le scuole, e che il Governo stia facendo davvero poco per proteggerne la salute e l’indipendenza culturale.
In un paese che di medievale ha solo certi retaggi culturali, visto che la polizia si serve del riconoscimento facciale e ha presidi tecnologicamente avanzati ovunque, viene più facile pensare che gli avvelenamenti facciano parte di una nuova politica di repressione verso quelle stesse donne che, dalle scuole elementari alle università, hanno sfidato apertamente le autorità, reclamando la fine della teocrazia e l’avvento di un nuovo Iran, democratico e laico.
Restando in Medio Oriente, la battaglia dell’Istruzione si combatte clandestinamente anche a Kabul, in un Afghanistan dove la polizia religiosa, che risponde al Ministero della Prevenzione del Vizio e della Promozione della Virtù, sorregge una dittatura teocratica che impone la radicale applicazione della Sharia, con esecuzioni pubbliche (l’ultima il 6 dicembre, nello stadio di Farah) e un «ukase»(editto) che bandisce le donne dalla università, dalle scuole superiori, dai posti di lavoro, dalle palestre ed anche dagli ospedali visto che non possono essere curate da uomini, ma la stessa legge impedisce loro di laurearsi in medicina.
È qui, in un paese che secondo il World Food Programme ha 22, 8 milioni di persone affette da malnutrizione cronica, di cui ben 14 milioni sono bambini, che stanno sorgendo delle scuole clandestine per donne, gestite proprio da donne, a rischio d’arresto o peggio, per garantire alle bambine e alle ragazze di oggi un futuro diverso dalla discriminazione di genere che infesta la nazione ormai da troppo.
L’evoluzione digitale, i cambiamenti climatici (e le relative conseguenze economico-sociali), i rigurgiti ideologici più o meno strumentalizzati da una politica agglutinata ai vecchi paradigmi, rendono sempre più urgente un nuovo tipo di istruzione che problematizzi le questioni giovanili invece di limitarsi a reprimerle o a incanalarle in sistemi di controllo a maglie sempre più sottili.
Non c’è futuro senza scuola. Non c’è scuola senza un’idea di futuro.