The Whale: il corpo come santuario del dolore secondo Darren Aronofsky

da | Mar 8, 2023 | MONDOVISIONE

Mentre si avvicina la notte degli Oscar (12-13 marzo) e «The Whale», presentato a Venezia 79 e in lizza al red carpet con tre candidature, sembra essere uno dei favoriti anche grazie alla «maiuscola» interpretazione di Brendan Fraser, critica e pubblico si dividono fra entusiasmi e perplessità sull’ultimo lavoro di uno dei registi più discussi di sempre.

Dopo aver visto l’omonima pièce «off Broadway» nel 2012, e dopo che il progetto, inizialmente affidato a Tom Ford (che avrebbe voluto come protagonista il comico britannico James Corden), è sfumato, Darren Aronofsky ha deciso di affidare la sceneggiatura proprio a Samuel D. Hunter, l’autore del soggetto teatrale, avvalendosi come sempre alla fotografia di Matthew Libatique, e usufruendo dello sforzo produttivo della sempre più a fuoco A24.

La galassia di comparse che ruota attorno al protagonista va dall’efficace Hong Chau, amica e infermiera, cinica ma giusta, nonché a lui legata da una vicenda famigliare d’importanza capitale per lo sviluppo della trama, passando attraverso Mary, la sua ex moglie (la Samantha Morton precog di «Minority Report»), disincantata e ai limiti dell’alcolismo ma anche vittima delle scelte del marito, fino a Ellie (Sadie Sink), figlia e adolescente ribelle che trasforma in aggressività ogni frustrato desiderio di accettazione.

Ma il fulcro di tutto è proprio lui, la balena Brendan Fraser, sepolto per l’occasione in un gigantesco costume stampato 3D dal make-up artist Adrien Morot, per incarnare (nell’etimo) un uomo di oltre 270 chili, con una voce possente e gentile che merita la visione in lingua originale, e un’espressività che gareggia solo con quella da maschera della tragedia greca di Colin Farrell, su «Gli Spiriti dell’Isola».

TRAMA

Charlie, dopo la fine del proprio matrimonio e la perdita del compagno, si è chiuso in casa e ha cominciato ad ingrassare rifiutando qualsiasi aiuto medico tranne quello fornitogli dall’amica Liz (sorella dell’ex-compagno), con cui sembra aver sviluppato un tacito patto di non intervento, simile a quello fra Elizabeth Shue e Nicolas Cage nell’iconico «Via da Las Vegas» di Mike Figgis.

L’agonica quiete, molestata dall’imminente fine del protagonista per le inevitabili complicazioni cardio-vascolari, viene interrotta dall’irrompere nel microcosmo dell’appartamento, della figlia Ellie, di un predicatore porta a porta poco più che maggiorenne, e della ex-moglie che non vede ormai Charlie da molti anni.

Quest’ultimo, docente di composizione on line che ha dedicato alla scrittura tutta la sua esistenza, sentendo l’imminenza della fine, decide di riavvicinarsi ad Ellie destinandole tutti i soldi accumulati in quegli anni di vita solitaria, e proponendosi di aiutarla a scuola, inaugurando così un conflitto con l’amica di sempre che pensava non volesse farsi curare perché in bolletta.

Mentre il passato riemerge attraverso il racconto dei gregari, e Charlie non fa che aggrapparsi al frammento di un tema su Moby Dick scritto molti anni prima proprio da sua figlia, l’insegnante decide per la prima volta di mostrarsi alla classe virtuale attivando la fotocamera e provocando risatine di scherno e imbarazzo.

Il predicatore-adolescente, nel frattempo ambiguamente corteggiato da Ellie, si rivela essere un ragazzo difficile in fuga dalla famiglia mentre, dopo una nottata di «binge eating», le condizioni di Charlie peggiorano vertiginosamente fino a un epilogo inizialmente non previsto dallo sceneggiatore, volutamente onirico ma per niente ottimista, che riporta il protagonista all’ultimo spensierato momento trascorso con la sua famiglia in riva all’oceano.

LA PORNOGRAFIA DEL DOLORE

La (s)cadenza ebdomadaria della pellicola sembra riportarci al voyerismo annacquato di «vite al limite» e a quella tv del dolore non estranea ai salotti generalisti del primo pomeriggio, ma l’operazione che compie Aronofsky è più radicale perché egli «usa» l’obesità del protagonista come strumento di autodistruzione e rimozione ma anche come stratificazione della memoria, letteralmente nascosta fra le pieghe e le piaghe di un involucro ormai disgustoso, eppure impossibile da ignorare in quanto simulacro di un vertiginoso abbandono.

Charlie è sia Achab che Moby Dick: è il Male albino che anima ogni pulsione nichilista ma anche la sua nemesi che nel volerlo annientare ne rimane stregata; nel frammento del tema infantile di Ellie si parla di come Melville abbia nascosto dietro interminabili digressioni sui cetacei, la sua triste storia, e nei disperati appelli che il professore lancia alla classe intorpidita c’è tutta l’urgenza, direi testamentaria, di un uomo che ha perso tutto, tranne l’insensata ma incorruttibile fiducia nella bontà dell’essere umano.

Il cinema di Aronofsky è da sempre incentrato sul corpo e sull’autoflagellazione, da quella lisergica di «Requiem for a Dream», passando attraverso l’ambiguo concetto di maternità in «Madre» e quello di perfezione stilistica ne «Il Cigno Nero», fino all’auto-martirio sul ring di «The Wrestler», ma se l’obesità di Charlie/Fraser può essere stata una provocatoria manovra di marketing, viste le percentuali che essa totalizza soprattutto negli Stati Uniti, il suo utilizzo metaforico e la qualità della scrittura smarcano «The Whale» da facili accuse di prurigine.

Rilanciando Mikey Rourke nei panni di sé stesso (ed anche lì si parlava di un padre in fuga dalla figlia, che cerca di recuperarla quando ormai è troppo tardi) e facendolo anche con Fraser, ormai ostracizzato da Hollywood perché ingrassato a seguito di un problema fisico e reduce da un difficile divorzio, il regista oblitera il legame tra finzione e autobiografia che non risparmia neanche lo sceneggiatore, Samuel D. Hunter, gay dichiarato, nato e cresciuto nello stesso Idaho del protagonista, professore di letteratura e con un passato segnato da abusi alimentari.

I principali difetti di The Whale sono una fotografia troppo debole e sgranata, volutamente semibuia per assecondare il mood claustrofobico dell’appartamento, ma inefficace nell’equilibrio complessivo della visione, ma anche la non perfetta migrazione del soggetto dal palcoscenico al set cinematografico, coi personaggi secondari troppo perfetti per essere veri e la mancanza di quel «non detto» di cui vive la migliore settima arte.

Eppure, anche considerando il facile pathos che ispira la recitazione di Fraser, che in molti hanno tacciato di pietismo, o l’assenza di una vera e propria vena autoriale (The Whale è il meno aronofskiano fra i film di Aronofsky), resta la straziante testimonianza di un dolore estremo ma mai disperato, che a tratti ricorda il secondo David Foster Wallace, quello più empatico e meno postmoderno, ugualmente confinato su un divano televisivo e incapace di sciogliere lo stesso nodo di Charlie fra quel «nessuno può essere salvato» e «Non credi che le persone siano incapaci di non prendersi cura degli altri»?

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