«Costa molto essere autentica signora mia, anche perché una è più autentica quanto più assomiglia all’idea che ha sognato di sé stessa», recita l’ambigua e travolgente Agrado dal palcoscenico di «Tutto su mia madre» (1999), capolavoro e gender-manifesto ante-litteram di Pedro Almodovar, e questo dopo aver enumerato, e monetizzato, tutti gli interventi di chirurgia plastica subiti nel corso di una vita.
La bellezza è sempre stata un filtro sociale e un’arena di combattimento che nel corso dei secoli si è declinata sotto molteplici aspetti, ma che si è riflessa quasi integralmente nella lente deformante del corpo femminile. Il ragionamento a monte di questo articolo nasce dalla visione inaspettata di un manichino disadorno nella vetrina notturna di una città campana, un manichino sovrappeso (o curvy, come vorrebbero il politicamente corretto e la tassonomia pornografica) piegato su un fianco, così da evidenziare gli antiestetici rotolini di plastica, strizzando l’invisibile occhio antropomorfo al mercato delle taglie forti.
Guardandolo, mi sono tornate in mente le tre miss universo venezuelane, tutte beneficiate dal bisturi della chirurgia plastica, l’ossessione (soprattutto negli anni 70 e 80) delle donne di quello Stato per silicone e botox, ma anche il dissenso del presidente Chavez per la diffusione endemica di tali pratiche (che lui definì «mostruose»), e la geniale invenzione di Eliezer Alvarez, che iniziò a fabbricare manichini da vetrina «rifatti».
SURGERY TAX
Che gli standard di bellezza abbiano sempre rispecchiato l’ideologia e i valori della classe dominante non è una novità, basti pensare a quanto la pelle chiara fosse nel Rinascimento sinonimo di non necessità di lavorare nei campi e quindi di agiatezza, laddove oggi un’abbronzatura fuori stagione, anche se spesso artificiale, rappresenta un complemento di lusso o l’opportunità di vacanze esotiche.
Ma oggi, lo sviluppo esponenziale della chirurgia plastica da un lato e l’evoluzione della cosmesi dall’altro, hanno abbattuto quella democratizzazione estetica ancora presente sul finire del secolo scorso, introducendo quella che provocatoriamente ho definito «surgery tax», e che potrebbe estendersi anche a kit cosmetici non proprio alla portata di tutte le tasche.
La bellezza è tornata a manifestare (tristemente o giustamente, lascio a voi la scelta avverbiale) l’appartenenza a una determinata classe sociale.
Il Lockdown ha prodotto un deciso aumento della richiesta di trattamenti estetici in Italia (che in un recente articolo abbiamo raccontato essere al quinto posto mondiale in questa atipica classifica, soprattutto nelle fasce più giovani) con mastoplastica e blefaroplastica in testa e con un massiccio utilizzo di botulino e acido ialuronico, ma in generale in tutto il mondo la zoom-mania, la selfilia e i filtri social hanno reso l’aspetto estetico, e la costruzione manieristica del viso, non solo un identikit di classe ma anche il passaporto per uno stile di vita vincente.
Aristotele diceva: «la bellezza personale è la più grande raccomandazione, più di qualsiasi lettera di referenze».
Dopo più di mille anni, la sua affermazione è ancora valida.
LO SGUARDO MASCHILE
Per anni la bellezza patinata di modelle bianche è stato il trademark dell’alta moda, metro di giudizio assoluto e assolutamente dannoso per molte adolescenti, vittime di problemi psicologici e malattie alimentari, fino alla rivoluzione introdotta da Kate Moss, con la sua magrezza emaciata figlia della Grunge Generation; ma la recente infatuazione per le taglie forti e le modelle di colore oversized è realmente il risultato di una logica inclusiva che sdogana le imperfezioni estetiche, o solo la metamorfosi di un sistema commerciale che si apre a nuove (e sterminate) fasce di mercato?
Partendo dal presupposto che non sempre la magrezza è stata ed è un parametro universale di bellezza (in alcune parti della terra rappresenta ancora oggi povertà e indigenza, mentre la grassezza delle veneri preistoriche e delle dee del fiammingo Rubens sono divenute iconiche) e che l’obesità è una malattia e come tale va raccontata e gestita, il periodico tedesco Die Zeit ha sottolineato, sul finire del 2022, come anche le modelle formose siano sempre l’oggetto dello sguardo e del nuovo apprezzamento maschile.
La dimostrazione più evidente di questa distorsione è come non esista l’equivalente dal punto di vista dell’alt(r)a moda, ma anche nella percezione che l’uomo ha di sé: si oscilla dall’efebo magrissimo che ammicca alle preferenze gay al muscoloso e vinile alpha man, mentre la grassezza può tutt’al più funzionare come attributo simbolico di potere, ma in questo caso l’appeal è assolutamente metaforico, e il risultato di questo gioco di specchi è che l’immaginario femminile si plasma e definisce sempre attraverso l’angolazione maschile.
Uno dei maggiori difetti della «body positive», derivazione new-age delle battaglie femministe anni Settanta, che combatte la mercificazione e l’omologazione del copro femminile, è che non sposta dalla bellezza ad altri valori il centro del dibattito, ma dalla bellezza uniformante ad altri tipi di bellezza, di fatto non mutando paradigma: così i social network, ma anche molte riviste di settore, per non parlare delle campagne pubblicitarie dei prodotti di bellezza, sono affollate di donne diversamente magre, non più giovani o con evidenti difetti fisici, molte delle quali iper-esibiscono la loro difformità (o deformità) come iperbole di un’accettazione con cui qualsiasi adolescente, o post-adolescente problematica, fatica a familiarizzare.
Vorrebbero accettarsi nonostante siano grasse, o nonostante lo stereotipo di bellezza sia e resti la magrezza.
E, per testimoniare il rifiuto del diktat dominante «taglia 36», usano lo stesso strumento imperfetto da cui dovrebbero smarcarsi, finendo per diventare testimonial di un antitetico stereotipo, speculare al primo ma con le stesse regole di marketing e visibilità.
Lo stesso tipo di cortocircuito culturale avviene nel mondo dell’enogastronomia, quando gli adepti della filosofia vegana ricercano morfologicamente alimenti che rispecchino in tutto e per tutto il loro passato da onnivori, pur essendo costituiti da ingredienti che rispettano il loro nuovo credo: i ceci sostituiscono la carne di manzo in hamburger irrorati da salsa di soia e grondanti succo di barbabietola, così denso e sciropposo da sembrare sangue.
Il paradigma estetico è lo stesso, e si fonda su un elemento nostalgico che mette in dubbio la radice ontologica della loro scelta.
Ergo non bisogna parlare di altre bellezze, o di bellezze «altre», ma parlare meno di bellezza.