Società del rischio e intelligenza artificiale

da | Feb 24, 2023 | IN PRIMO PIANO

Alla base dell’intelligenza artificiale e del machine learning non ci sono la comprensione e l’individuazione dei nessi causali ma le correlazioni che possono portare gli algoritmi a prevedere l’immediato futuro, riducendo il fattore rischio in ogni ambito della nostra vita sociale e produttiva.

Ed è proprio del rischio (e più precisamente della «Risikogeselllschaft» , e cioè letteralmente «società del rischio») che si è occupato di recente il sociologo tedesco Ulrich Beck, non limitandosi a definirlo una variabile che può influenzare in modo negativo o positivo il raggiungimento di un determinato risultato, ma un vero e proprio orizzonte globale in cui nuotiamo tutti, individui e organizzazioni.

Quando si parla di rischio, secondo il lessico umanista di Beck, non si vuole intendere che viviamo in un mondo potenzialmente più pericoloso (anche se in parte è così), ma solo che il rischio ormai è al centro della vita di ognuno di noi e di tutti i dibattiti politici di un certo spessore: il rischio è sempre una questione di anticipazione e anticipare un rischio significa mettere in prospettiva una possibile catastrofe, fattore che manda in crisi le nostre più immutabili certezze, ma che movimenta anche energie nuove in funzione di possibili cambiamenti, nella cornice di un comune destino transnazionale.

Beck promuove un’innovativa «cultura dell’incertezza», lontana dal concetto di «rischio residuale», che è sempre ciò che capita agli altri (e in un condiviso orizzonte democratico «gli altri» non esistono), ma anche distante da una cultura della sicurezza che può trasformarsi in una gabbia in grado di castrare ogni innovazione.

Il rischio, così concepito, è costitutivo dell’incertezza sociale che ci troviamo a vivere ed anche se essa è «sempre relativa al contesto e ai rischi concreti che una persona o una società devono affrontare», è comunque un elemento fondante della nostra libertà; vivere nella società del rischio significa fare i conti non con la quantità di rischio ma con la qualità del controllo, visto che l’instabilità capillare che ci pervade tutti non deriva dal mutamento climatico, dai disastri ecologici o dal terrorismo internazionale in sé, ma dalla crescente, e interconnessa, consapevolezza di quanto tutto stia andando fuori controllo.

La politica, e non la tecnologia, deve occuparsi del rischio prevedendo, e orientando, scenari che includano la catastrofe come ordinario elemento di analisi e non come «incertezza fabbricata» per produrre e strumentalizzare il panico.

Chi non rischia non rosica, ma i cocci sono di tutti.

INTELLIGENZA O COMUNICAZIONE ARTIFICIALE?

Partendo dal presupposto che l’intelligenza artificiale non debba comprendere ma prevedere, alcuni studiosi, come Elena Esposito, hanno proposto un cambio di paradigma, da intelligenza a «comunicazione artificiale».

Al di là della semantica, che qualcuno sosteneva porti sempre al peggio, il recente avvento di un’intelligenza artificiale «generativa», in grado cioè di produrre un testo, rispondere a una mail, scrivere ricette, poesie e/o canzoni, si è declinato a partire dalla fine dello scorso anno nel rudimentale chatbot, «ChatGpt», un’applicazione che ha già totalizzato più di cento milioni di utenti (più rapida di Facebook), con un capitale di oltre trenta miliardi di dollari, supportata da Microsoft e guardata con grande interesse sia da Google che dal gruppo Meta.

Si tratta, in sostanza, di una chat web gratuita e sorretta dalle ultime tecnologie di intelligenza artificiale, in grado di rielaborare un testo in base alle richieste degli utenti, avendo in memoria milioni di pagine web e libri: anche se a volte scrive delle inesattezze, il risultato complessivo è acerbamente valido e cambia il modo di fare ricerche su internet, visto che invece di ricevere una lista di risultati che rimandano a siti esterni, attraverso ChatGpt, il motore ci fornisce un’informazione diretta e dettagliata.

Tutto molto bello, sembrerebbe, anche se finora il servizio è perfettibile e limitato a un ristretto numero di utenti, ma al di là di chi produce contenuti di alto livello, la cui autorialità non potrà che venire impreziosita da questo lato dell’Ai, cosa ne sarà di chi per lavoro scrive articoli, mail, presentazioni o copy per marketing?

Di certo scuole e università dovranno cambiare radicalmente il proprio approccio a fronte di un’intelligenza (o comunicazione) artificiale già in grado di scrivere tesi e compiti al posto degli studenti, e qui si va da alcuni insegnanti americani che addirittura incoraggiano i propri discenti ad usare ChatGpt, ad altri che animati da una sorta di neo-luddismo 2.0 ne demonizzano la diffusione.

I rischi (torniamo a Beck) sono quelli del complottismo e della post-verità, visto che alcuni dati di cui si è rimpinzata l’Ai contengono pregiudizi e disinformazione, ma anche il venir meno del pluralismo, se per pigrizia tutti si accontentassero del discutibile pensiero unico contrabbandato dalle oracolari macchine.

Anche la sopravvivenza degli editori, garanti della molteplicità delle fonti, è messa in pericolo dall’intelligenza artificiale generativa e da applicazioni come ChatGpt, per non parlare del problema della privacy, sempre focale visto che ci si muove sul cedevole terreno del marketing.

Esistono già video deep fake sempre più realistici e chatbot che simulano discorsi reali fra umani, e l’impatto che tutto questo potrebbe avere su una politica già minacciata da un pesante astensionismo è secondo solo alla vera e propria rivoluzione che potrebbe provocare nel mondo del lavoro, creando nuove figure professionali ma anche distruggendone molte altre.

L’appello è alla regolamentazione (politica) dell’Ai generativa, cosa che non è avvenuta, se non tardivamente, con le piattaforme, e alla spiegabilità e/o trasparenza degli algoritmi, piuttosto che alla loro demonizzazione in chiave conservativa.

Predire è meglio che curare.

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