La bellezza è verità, la verità bellezza (?)

da | Feb 15, 2023 | IN PRIMO PIANO

«Una sera ho fatto sedere la Bellezza sulle mie ginocchia e l’ho trovata amara. E l’ho insultata.», scriveva Arthur Rimbaud nella sua «Stagione all’Inferno» (1873); chissà cosa penserebbe l’enfant prodige della letteratura francese fissando oggi i milioni di selfie che affollano il web e i profili social degli adolescenti di tutto il mondo (va ricordato che il poeta maledetto per antonomasia ha scritto le sue opere migliori e più celebri prima di raggiungere i 20 anni)?

Probabilmente storcerebbe il grazioso naso, che fece perdere la testa a Verlaine, o, fedele al suo motto («il faut être absolument moderne»), aprirebbe una pagina Instagram mietendo consensi a strascico vista l’inequivocabile fotogenicità del suo profilo, secondo i dipinti del tempo.

Ma il verso che dà il titolo all’articolo, «la bellezza è verità, la verità bellezza», tratto dalla celebre poesia «Ode su un’urna greca» di John Keats, ha ancora la sua fondatezza nell’era del ritocco e della post-verità? E l’assunto del filosofo Wittgenstein, secondo sui etica ed estetica sono un tutt’uno (e dal loro essere due facce della stessa medaglia scaturirebbe la bellezza) è ancora valido, definendo l’etica come la prospettiva di un valore non connesso a come il mondo è, ma evocato dalla meraviglia per l’esistenza del mondo in sé?

ETERNITÁ DI PLASTICA

I dati forniti dalla ISAPS (International Society of Aesthetic Plastic Surgery) e relativi al 2021 collocano l’Italia al quinto posto al mondo come numero di procedure di chirurgia estetica: di 700mila prestazioni mediche complessive, 238mila sono chirurgiche mentre ben 385mila non sono chirurgiche.

Si va da interventi a testa e viso alla chirurgia palpebrale e alla blefaroplastica, passando attraverso il miglioramento delle labbra e la rinoplastica, ma l’elemento più preoccupante di queste statistiche è il vertiginoso aumento dei soggetti delle Generazione Z (i nati fra il 1995 e il 2010) che si sottopongono a simili trattamenti, non puntando più alla bellezza simmetrica e preraffaelita delle top model anni 90, ma alla «Rich Girl Face» e alle prosperose forme di star come la Kardashian.

L’ossessione per la perfezione, che si riflette (è il caso di dirlo) nella fenomenologia del selfie, divenuta più che virale nel periodo pandemico, forse anche perché pratica autoriferita e solipsistica, almeno nella sua fase gestatoria, ha introdotto una nuova patologia, catalogata dal DSM-5 (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) come un disturbo ossessivo-compulsivo, e cioè la dismorfofobia o dismorfismo corporeo.

Nonostante in Italia manchino ancora specifiche ricerche su questo tema, l’Apa (Associazione Americana di Psichiatria) ha definito il selfie, o meglio la dipendenza da selfie, come una patologia derivante dal dismorfismo, e cioè la tendenza a vedere imperfezioni estetiche laddove non ce ne sono, mentre la rivista ufficiale del MIT ha pubblicato uno studio sull’impatto dei filtri facciali su giovani e giovanissimi, rilevando che il 34% degli intervistati (fra gli 11 e i 21 anni) non pubblica una foto senza prima essere ricorso a un’alterazione digitale.

I filtri di bellezza che «correggono» le imperfezioni virandole verso un modello unificato e ben preciso (naso piccolo, pelle chiara, labbra carnose), e che rappresenta il diktat estetico non solo della società occidentale/capitalista, visto il pericoloso e a volte canceroso fenomeno dello «sbiancamento» della pelle diffusosi in molti paesi dell’Africa e del Sud Est asiatico, rischiano di inghiottire la percezione della realtà proprio nella delicata fase della formazione del sé.

L’identità, che è la percezione che si ha di sé stessi, ha il suo rovescio nella reputazione, che è il modo in cui gli altri ci vedono, e non serve scomodare le maschere di Pirandello e il suo «Uno, nessuno e centomila» per rendersi conto che l’era digitale ha moltiplicato e frantumato l’io in mille identità, spesso sovrapponibili, a volte dissonanti, e che i filtri di cui parlavamo poco fa non sono solo di bellezza: durante una semplice passeggiata o nella sala d’attesa di un aeroporto, di una stazione o di un professionista, lo schermo degli smartphone ha sostituito ormai quasi integralmente libri e riviste, ma è ad eventi pubblici come concerti o partite di calcio che si assiste a una vera e propria mutazione antropologica.

La funzione dei maxischermi (ormai ubiqui) non è più quella di migliorare la visuale di chi è lontano dal palco, o dal terreno di gioco, ma di creare un doppio (o triplo/quadruplo, a seconda del numero di monitor) della realtà, doppio che si moltiplica a sua volta se ripreso col telefonino; il paradosso è che spesso anche chi è in prima fila preferisce guardare, e riprendere, i contenuti veicolati dai maxischermi, dando persino le spalle ai performer o agli atleti, e questo perché il filtro in qualche modo «corregge» o «migliora» l’immagine e lo fa a tal punto che la finzione ormai sostituisce la realtà.

L’altro filtro che agisce sul flusso degli eventi è temporale, per cui fotografiamo o filmiamo tutto per poi rivederlo in seguito (cosa che raramente accade), e questo per donarci l’illusione di poter controllare il tempo, come la chirurgia plastica è il grottesco e fallimentare tentativo di ingannare l’invecchiamento e la caducità del corpo.

Eppure, l’imitazione e l’adesione a dei modelli prestabiliti è parte dell’adolescenza da sempre, ed è ovvio che una società così tecnologicamente avanzata sforni miti edibili un tanto al chilo, ma la differenza (nel senso del differire) rispetto all’era predigitale è che oggi l’adesione avviene solo per canoni estetici, in modo acritico, e senza alcuna dialettica o scavo interiore.

Il primo parametro del successo (e della mercificazione) è la misurabilità e il dualismo del like è la perfetta sintesi dell’onnipresente e dilagante cultura dell’immagine, al punto che la bellezza non è più figlia della Storia, della tradizione o dell’arte, ma il prezzolato prodotto di un discutibile guru.

Lo sbiancamento dei denti, l’innesto dei glutei tanto praticato in Sud America, la demandorlizzazione degli occhi in Asia, non hanno nulla a che vedere con le ferite rituali, i tatuaggi tribali o con altre pratiche secolari diffuse in tutto il mondo, perché sono il tentativo (a volte pericoloso, se affidato per mancanza di denaro, a improvvisati chirurghi) di aderire a uno stereotipo estetico di successo contrabbandato dell’élite occidentale.

Nei nativi diveniva sciamano chi meglio imitava l’animale dominante; l’ultima mutazione della Generazione Z è quella di andare dal chirurgo plastico non con la foto della star cui somigliare ma con quella filtrata di sé stessi: la variabile mancante di queste nuove metamorfosi è un dolore autentico, che non sia soltanto figlio dell’emarginazione social(e).

Ne è passata di acqua sotto i ponti da uno dei primi, e fulminanti, racconti di D. F. Wallace («Il pianeta Trillafon e la cosa brutta»), in cui il protagonista è talmente convinto di avere una ferita sul volto da arrivare al punto di ricucirsela sfregiandosi sul serio.

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