Dall’inizio della sua carriera Gaspar Noé, regista franco-argentino di 59 anni, ha sempre diviso sia pubblico che critica, fra chi lo considera un genio visionario e chi, al contrario, lo ritiene un eterno enfant prodige in grado di saltare da un esercizio di stile all’altro, ma con freddezza e senza un reale messaggio da veicolare.
Che la provocazione, non solo rivolta contro la borghesia, sia la cifra del suo cinema è evidente sia dalle tematiche scelte che dalla poliedricità dei registri narrativi, per non parlare della violenza espressiva, dell’ossessione per l’indagine fisiologica, e per la continua ricerca dell’interazione con lo spettatore, letteralmente «tirato dentro» ogni pellicola e incapace di restare neutrale rispetto alle immagini proposte (o, sarebbe meglio dire, imposte).
Per queste, e per altre ragioni, «Vortex», suo ultimo lungometraggio di 140 minuti, uscito nel 2021 e pressoché ignorato a Cannes, ha stupito sia i suoi detrattori che i fan storici in quanto, almeno a una prima visione, sembrerebbe una storia abbastanza classica, per quanto straziante, e senza le solite esasperazioni tecniche; in realtà, l’uso dello split-screen per quasi tutta l’opera (120 minuti) e la decadenza, fisica e mentale, dei protagonisti, avvicinano Vortex più a incubi come «Requiem for a dream» che a capolavori esistenzialisti come «Amour» di Hanneke.
Per il suo «vortice», Noé ha curato soggetto, regia e sceneggiatura, costruendo una wunderkammer di cimeli cinematografici simile a un utero che si restringe claustrofobicamente grazie anche alla fotografia di Benoît Debie, che alterna naturalismo a colori acidi, per rappresentare la lotta fra sanità mentale e perdita di lucidità.
La recente scomparsa della madre del regista dona alla pellicola quell’ambigua aura autobiografica che nulla toglie al consueto taglio nichilista cui ormai Noé ci ha abituato.
TRAMA
Dario Argento, nei panni di uno scrittore e critico cinematografico (non molti ricordano che iniziò proprio così, come critico al Paese Sera di Roma, prima di cominciare a scrivere sceneggiature fra le quali «C’era una volta il West», a quattro mani con Bernardo Bertolucci) vive in un piccolo appartamento a Parigi con sua moglie Françoise, affetta da tre settimane da una cronica forma di Alzheimer: tranne qualche saltuario sprazzo di lucidità, la donna vive in un perenne stato di confusione, dimentica la via di casa, non riconosce né il figlio né il marito, prende più volte le stesse medicine e dimentica il gas aperto, al punto che nel giro di pochissimo tempo la coppia realizza di aver bisogno di aiuto.
È proprio il figlio, Stéphane, tossicomane ancora lontano dalla completa disintossicazione e marito di una donna ricoverata in una clinica per disturbi mentali, che durante una delle sporadiche visite ai genitori col figlio Kiki, propone loro di internare la madre in una struttura specializzata, ma né Dario né Françoise si mostreranno entusiasti, timorosi di perdere la propria vita e tutto ciò che hanno pazientemente costruito negli anni.
Dario, che ha gravi problemi cardiaci, sta scrivendo un libro sul cinema e i sogni (Psiche) ed è ancora innamorato della storica amante, Claire, che però si rifiuta di incontrarlo e parlare con lui così, mentre la malattia della moglie, ex psichiatra, peggiora a ritmi vertiginosi, sarà un suo improvviso malore a segnare il destino della coppia, e della famiglia.
TUTTO CIÓ CHE VEDIAMO E A CUI RASSOMIGLIAMO È SOLTANTO UN SOGNO DENTRO UN SOGNO
Questa citazione, di Edgar Allan Poe, è la frase ispiratrice del libro che sta scrivendo Dario ma anche la chiave di lettura di un film che si sviluppa in modo rizomatico, a scatole cinesi, fino al drammatico epilogo che sfiora lo scandalo della sensazione.
Joseph Conrad scriveva che si vive come si sogna, e cioè perfettamente soli; l’espediente dello split-screen che suddivide lo schermo in due perfette metà per comunicare l’incomunicabilità e la distanza fra i coniugi, e che costringe lo spettatore a incanalare la propria attenzione rispettivamente verso l’uno o l’altra, e quindi a prendere posizione a favore di uno o dell’altra, diviene una metafora postmoderna dell’isolamento cui siamo tutti più o meno destinati, e che la malattia non fa altro che cronicizzare.
Ma «Vortex» è anche il desolante affresco di una vecchiaia che se sceglie di non essere ospedalizzata deve fare i conti con un deperimento, mentale e fisico, che gli impietosi primi piani di Noé, evidenziano nell’imbolsimento di Dario e nello sguardo vacuo e sperduto di Françoise Lebrun (storica eroina della Nouvelle Vague 2.0). La cultura, che filtra attraverso montagne di VHS e poster, fra i quali spicca quello di «Metropolis» di Fritz Lang ma anche l’amatissimo cinema di genere Argentiano, diviene un labile velo che non riesce a nascondere il frantumarsi della memoria e degli affetti e solo le scene in cui le braccia del padre superano la barriera ottica dello split-screen per incontrare quelle della madre o quelle in cui lei, recuperando lucidità, chiede alla famiglia di abbandonarla a sé stessa, commuovono perché riportano la storia a una quota minima e necessaria di umanità.
«Siamo tutti dei drogati», sussurra Dario al figlio mentre fuma una proibitissima sigaretta, e in effetti l’intera famiglia sembra schiava di psicofarmaci e medicinali, droghe o sostanze palliative, come in un racconto di William Burroughs, una spirale di denuncia clinica fondata anche sulla professione di Françoise che, da ex psichiatra, è ancora in grado di ottenere tutti i farmaci che desidera semplicemente esibendo il proprio tesserino di medico.
«C’est un cauchemar!!» (Questo è un incubo!), grida Dario dopo aver appreso che la moglie ha distrutto per sbaglio tutti i suoi appunti ed è giusto spendere due parole sulla grandiosa prova d’attore dell’indiscusso maestro dell’horror, qui messo a nudo (letteralmente) dalla macchina da presa di Noé, e in grado di improvvisare in francese, di piangere ed emozionarsi ma soprattutto di regalarci una delle scene fisicamente più drammatiche del cinema contemporaneo: dopo questo film ha dichiarato che non reciterà mai più ma, visti i risultati, ci auguriamo che non sia così.
La didascalia a inizio film: «a tutti quelli il cui cervello si decomporrà prima del loro cuore» è l’amara espressione di un sentimento cinematografico che indaga la perdita della memoria non come baule immobile di ricordi ma come incapacità di rappresentare e reinterpretare il proprio passato, menomazione che impedisce anche di riconoscersi negli altri e di specchiarsi nell’immagine che hanno conservato di noi nel corso di una vita.
Se la vita è un sogno dentro un sogno, il cinema è la vita sognata dai ricordi che non vogliono svanire.
Germano Innocenti