«Mentre ero in Nepal ho incontrato un tipo strano: mi ha detto che secondo un’antica leggenda locale ci sono otto montagne e otto mari al mondo e poi c’è un’unica altra montagna fissa al centro», sussurra ubriaco Luca Marinelli ad un Alessandro Borghi che ha bevuto forse più di lui, mentre il vento notturno fa tremare il lume a petrolio e la grappa schizza dappertutto.
«Secondo te io dove sono? E tu?»
Basterebbe questa scena, nella sua ebbra essenzialità, a definire la chiave di volta del film, la storia di un’amicizia fra due uomini diversissimi eppure legati a doppio nodo alla montagna, uno perennemente in movimento che attraversa le sue otto vette, e l’altro immobile al centro, perfetta espressione di una solitudine contemplativa ma per niente spirituale.
La coppia belga costituita da Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch ha adattato per il grande schermo l’omonimo romanzo di Paolo Cognetti (Premio Strega nel 2017), avvalendosi delle musiche di Daniel Norgren e della suggestiva fotografia di Ruben Impens (Titane; Black Mirror) e, senza mai scadere nell’illustrativo, è riuscita a rendere i 147 minuti di girato complessivo (vittime di ulteriori, e per Cognetti sanguinosi, tagli) non solo fruibili ma addirittura «leggeri».
A creare tale alchimia è sicuramente il borgo valdostano di Grana, ai piedi del Monte Rosa, ma anche l’ossatura del romanzo che presenta molteplici chiavi di lettura, e la sublime interpretazione della premiata coppia Marinelli/Borghi che torna a recitare insieme a sette anni dal testamentario «Non essere cattivo» di Claudio Caligari.
Il premio della Giuria a Cannes (ex aequo con lo straziante «Eo») incornicia una prova d’autore che, per ammissione degli stessi registi, non si sarebbe mai realizzata senza questo particolare cast, la lettura del libro e un’ispiratissima vacanza vissuta proprio dalla coppia in Valle d’Aosta.
TRAMA
Dopo aver passato qualche estate in un paesino montano di 14 anime, ai piedi del Monte Rosa, Pietro incontra Bruno, «l’ultimo bambino del borgo», inaugurando con lui un’amicizia che durerà trent’anni. Figlio di un ingegnere torinese con la passione per le escursioni (un grande Filippo Timi, talmente nella parte da regalarci, durante una lite, il suo ormai celebre balbettio), Pietro si allontanerà dalla montagna e da suo padre, per lungo tempo, tornandoci solo dopo la morte di quest’ultimo, prematura e tragica, e rincontrando il suo vecchio amico, più spigoloso e barbuto che mai.
I due restaureranno un rudere ad alta quota, esaudendo un desiderio del padre di Pietro, trasformandolo in una baita che diverrà il buen retiro della loro amicizia e mentre il primo, scrittore e documentarista (alter ego di Cognetti) girerà il mondo trovando l’amore e (forse) sé stesso in Nepal, Bruno resterà a Grana provando a realizzare il sogno di divenire casaro d’alpeggio ma a modo suo, senza spirito imprenditoriale e mungendo ancora le vacche a mano.
Ma una moglie e una figlia non basteranno a far funzionare le cose e, mentre Pietro «riscoprirà» in qualche modo la figura paterna, la montagna si riprenderà Bruno, in modo lirico e tragico al tempo stesso.
CIME TEMPESTOSE
Se è vero che la voce fuori campo e l’eccesso di ballate indie-folk rischiano di trasformare «Le otto montagne» in un’opera didascalica giocando prematuramente la carta del romanzo di formazione (e in effetti la pellicola denuncia una patinata scansione letteraria), la complessa triangolazione padre-figlio fra Timi, Marinelli e il «secondo figlio» Alessandro Borghi rende quasi psicoanalitico il simbolismo alpestre, con la montagna vissuta come rifugio dalla modernità ma anche come tradizione, sociale e famigliare, da tradire per varare sé stessi nel mondo.
Eppure, il viaggio, se vissuto come reale ricerca con una meta pretestuale, è sempre ellittico e ci riporta indietro costringendoci a fare i conti con il nostro passato, perché la memoria, come i ghiacciai perenni, non è conservazione dei ricordi ma rappresentazione e interpretazione, e quindi eternamente in movimento.
Pietro è l’elemento apollineo, Bruno quello dionisiaco, eppure l’inquietudine del primo e la curiosità intellettuale del secondo li rendono complementari, come Achille e Ulisse, trasformando una storia d’amicizia in un’universale metafora del viaggio e del ritorno, della furia e dell’immobilità.
Ma «Le otto montagne» è anche un atto d’amore verso una Natura da non vivere come una cartolina, ma che, come afferma Bruno agli amici di città di Pietro: «va sfruttata e vissuta. Non esiste la Natura, esistono i sentieri, i pascoli. Voi venite qui d’estate ma d’inverno, con tre metri di neve, cosa fareste?»
L’aumento della superficie boschiva, soprattutto ad alta quota, registrato negli ultimi anni in Italia, non è il risultato d’una paziente opera di rimboschimento o di un riuscito e nuovo patto fra uomo e montagna, ma il preoccupante sintomo di un abbandono che genera frane e smottamenti, moltiplica gli incendi e determina un incremento di paesi-fantasma; Bruno rappresenta il secolare legame fra uomo e bestiame che tanto ha significato per il popolo delle Alpi e che guarda con cinico disincanto all’ecologia di maniera incapace di cogliere la bellezza e la profondità di un’economia di sussistenza, quel rapporto con gli animali tanto (de)cantato dal Giovanni Lindo Ferretti 2.0.
Nessun’altra coppia di attori sarebbe stata in grado di rendere la silenziosa amicizia fra Pietro e Bruno: la pensosa fragilità di Marinelli, già vista in «Martin Eden» o in «Una Questione Privata», fa da contraltare al primitivismo di Borghi, non privo d’una rude dolcezza: «Sono nato per vivere solo in montagna. Non è poco, no?»
Il paziente lavoro (o meglio, lavorìo) di ricostruzione dei legami operato dalle donne (nel film, soprattutto da Elena Lietti nei panni di Francesca Guasti, madre di Pietro) è l’altra faccia della montagna, quella dell’affabulazione e dei racconto di fronte al focolare, dell’intaglio e del cucito, della sostituzione e riparazione nei mesi invernali, in attesa del disgelo.
«Le otto montagne» sta vivendo un inatteso successo al botteghino, gareggiando con mega-produzioni come il nuovo Avatar di Cameron, e a rendere questo successo ancora più clamoroso è che si tratti di un film molto lungo e non di una commedia, incoraggiante segnale per un cinema, come quello italiano, che sta dimostrando di avere ancora qualcosa da dire, perché anche se si tratta di una coproduzione italo-belga-francese, le ambientazioni e la storia provengono tutte dall’italianissimo romanzo di Cognetti.