Per due settimane, e precisamente dal 7 al 19 dicembre 2022, si è tenuta a Montreal Cop15, la quindicesima Conferenza delle Parti, sotto la presidenza della Repubblica Popolare cinese: l’accordo finale cui si è pervenuti prende il nome di Kumming-Montreal Global Biodiversity Framework (GBF), in onore proprio di Cina e Canada, e va a saldarsi idealmente con la conferenza sul clima, tenutasi a Il Cairo un mese prima, come una sorta di bilancio ambientale di fine anno.
I lavori erano iniziati con la caustica dichiarazione del Segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres: «Abbiamo dichiarato guerra alla Natura», e si sono conclusi con un tentato «cessate le ostilità» che però non ha soddisfatto alcuni dei paesi più poveri, soprattutto quelli a maggiore estensione forestale, come Brasile, Indonesia e Repubblica Democratica del Congo, che non hanno ottenuto la creazione di un fondo economico ad hoc, ma «solo» la promessa di 200 miliardi di dollari da qui al 2030, all’interno di meccanismi di finanziamento già esistenti, come il Gef o il Global environment facility.
Anche la maggior parte delle associazioni ambientaliste si è dichiarata soddisfatta a metà, e il Wwf ha rilasciato una nota in cui sostiene che «gli obiettivi non saranno sufficienti ad arrestare e invertire la tendenza alla perdita della biodiversità sul pianeta».
E salvare la biodiversità, mentre la Terra si trova sull’orlo della sesta estinzione di massa, è stato il principale obiettivo della Cop15, visto che al momento sono circa un milione le specie a rischio di sparizione e, nonostante l’evento cino-canadese sia passato quasi inosservato per ciò che concerne i principali mass media internazionali, la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha parlato di «storico risultato», affermando che per la prima volta «abbiamo una tabella di marcia per proteggere e ripristinare la natura».
TARGET E OBIETTIVI
Il primo obiettivo, noto come 30×30 o 30-by-30, stabilisce che entro il 2030 il 30% delle terre emerse e il 30% dei mari dovranno essere designate come aree protette, e il lavoro da fare è ancora molto lungo se pensiamo che al momento siamo al 17% per le terre emerse e a un misero 10% per la superficie marina; inoltre, vale la pena ricordare le parole del biologo americano Edward Osborne Wilson, scomparso nel dicembre 2021, che proponeva di lasciare il 50% del mondo alla natura, visto che non ci appartiene, anche se l’errore concettuale più grave da non commettere è quello di maculare il globo di oasi a circuito chiuso dove si tuteli la biodiversità, circondate da macro aree di monocolture a deforestazione intensiva, per consentire l’agricoltura di scala bastevole a nutrire un mondo in perenne ascesa demografica.
Il secondo obiettivo caldeggiato dalla Cop15 è quello di ripristinare il 30% delle aree naturali degradate, prevenendo e curando quella parte di natura che già sta soffrendo per gli interventi antropici; il terzo è quello di riconoscere i diritti dei popoli indigeni, visto che nei loro territori si può trovare circa l’80% della biodiversità mondiale.
Il quarto traguardo indicativo, che ha chiuso alle tre e mezza del mattino del 20 dicembre il tavolo dei lavori, è quello di ridurre a zero la perdita di biodiversità, in particolare per gli ecosistemi ad alta integrità ecologica. Eppure, la Conferenza ha moltiplicato gli obiettivi da raggiungere, facendoli ruotare attorno a questi quattro fondamentali target, proponendo ad esempio di dimezzare lo spreco alimentare per ridurre il gap fra chi ha cibo in abbondanza e chi ne è sprovvisto, o di attenzionare il commercio e l’esposizione di specie selvatiche, non arrivando al punto di vietare i mercati di animali vivi, ma evidenziando i possibili rischi, sanitari e ambientali, legati alla prossimità di animali selvatici agli insediamenti umani.
Se dal punto di vista umanitario, le comunità indigene hanno visto riconosciuti i propri diritti e le peculiarità dei territori che abitano, e questo ha segnato un importante punto a favore del riconoscimento dei diritti umani e della parità di genere, poco è stato fatto per regolamentare l’uso di pesticidi e sostanze chimiche (che andranno ridotti solo del 50% entro il 2030), e niente si è detto per la protezione degli insetti impollinatori.
Come già visto, i soldi da investire per la salvaguardia di ecosistemi e biodiversità non rientreranno nella creazione di un fondo a parte, come richiesto dagli Stati a maggiore copertura forestale, ma i paesi più ricchi si sono impegnati e versare 30 miliardi di dollari l’anno, in termini di sviluppo sostenibile e per un totale complessivo annuale di 200 miliardi, anche se i governi degli Stati che hanno firmato non sono obbligati ma dovranno presentare dei dati con gli impegni economici messi a disposizione della natura e della biodiversità.
Nuovi strumenti economici green-friendly stanno per nascere e termini come «green bond» o «biodiversity credits» saranno sempre più utilizzati dalla finanza verde nel prossimo futuro, così come la raccolta, la trasparenza e la diffusione dei dati si coniugheranno a una ricerca scientifica indipendente, al fine di sviluppare un meccanismo per condividere i benefici delle scoperte di tipo alimentare, sui vaccini e sulle sostanze di interesse farmacologico.
Ciò nonostante non è concepibile la tutela della biodiversità senza un importante e trasversale intervento climatico, così come non è possibile orientare le singole economie nazionali in termini di sviluppo sostenibile e rispetto ambientale, senza un adeguato e severo sistema di incentivi e sanzioni, visto che la maggior parte degli accordi e conferenze internazionali dedicati a clima e biodiversità si fondano su facoltà e non su obblighi.
Spesso, quando si parla di ambiente, si fa ricorso a un vocabolario bellico: se si vogliono ottenere risultati concreti senza incorrere nel rischio di spostare la deadline sempre più in avanti, bisognerà trattare bellicamente anche il disarmo umano nei confronti della Natura e stabilire un inequivocabile Diktat, per non scivolare eternamente nel green-washing e nel politicamente corretto.