Dopo aver lavorato a lungo, sia sul grande che sul piccolo schermo, come tecnico del suono, elettricista ed effettista (basta ricordare i suoi due lavori più celebri: «Rogue one: A Star Wars Story» e «Prometheus» di Ridley Scott), Vadimar Johannson ha realizzato il suo primo lungometraggio restando nei confini della terra madre, l’Islanda, ma avvalendosi del nume tutelare Béla Tarr, la cui Film Factory di Sarajevo ha frequentato a lungo, e che qui compare anche come produttore esecutivo, insieme alla protagonista Noomi Rapace, scelta non solo per le sue abilità attoriali, ampiamente testate sul set di Prometheus, ma anche perché l’amazzone tascabile di Millenium, pur essendo svedese, parla correntemente islandese avendo vissuto sull’isola per un lungo periodo della sua vita.
Inoltre, non va dimenticata la collaborazione in sede di scrittura fra Jòhannson e il poeta, cantautore e scrittore (sempre islandese) Sjòn, vero monumento nazionale e noto al grande pubblico per la storica crasi con Björk, soprattutto in pezzi come «Isobel» e «Bachelorette»: «Lamb» è stato presentato a Cannes 74, nella sezione Un Certain Règard, che ha vinto proprio per la sua originalità, e nonostante si ponga come un’opera al limite fra il dramma famigliare, l’horror e il thriller metafisico, ha suscitato l’interesse di tutti e l’unanime plauso della critica, proprio per l’atmosfera sospesa evocata dagli scenari norreni e per la bizzarria della sua trama.
TRAMA
Maria e Ingvar vivono in una bolla spazio-temporale fra le valli islandesi, dediti a un’agricoltura e a una pastorizia arcaiche che dovrebbero comunicare una ieratica serenità e che invece lasciano trasparire un dolore di coppia mai sopito: il lutto della piccola Ada, la figlia nata morta non molto tempo prima.
Ma un giorno, dopo aver spaventato una mandria di cavalli, un’ambigua entità feconda una pecora che al momento del parto, assistita proprio dalla coppia di allevatori, darà alla luce un ibrido con volto d’agnello, zampa caprina e il resto del corpo umano in tutto e per tutto.
Fra Maria e Ingvar nascerà all’istante un muto patto di sostituzione e la piccola Ada diverrà l’inaspettato dono e la seconda occasione per provare ad essere di nuovo felici, anche se il prezzo da pagare è l’isolamento sociale, l’egoismo umano e il sovvertimento delle più elementari norme naturali.
L’arrivo nella fattoria di Pétur, fratello di Ingvar, ex di Maria e un tempo artista pop dall’oscuro presente, sovverte l’innaturale idillio ma anche lui, dopo l’iniziale e malcelata ritrosia, finirà con l’accettare la dolcissima Ada.
Un pomeriggio, dopo che i tre si sono piacevolmente ubriacati rievocando i tempi andati, Pétur flirterà con Maria minacciando di rivelare al marito che l’ha vista uccidere e seppellire la madre di Ada, rea di recarsi sotto la finestra della piccola, belando di continuo per reclamare la sua maternità: la donna fingerà di accettare le sue avances, quindi lo chiuderà in un ripostiglio e il giorno seguente lo accompagnerà a prendere un autobus, affinché non turbi più con la sua presenza il loro equilibrio ritrovato.
Ma il finale, imprevedibile e bizzarro, sovvertirà i piani della coppia, riconfermando l’immagine ostile e matrigna della natura nordica nella letteratura islandese e scandinava.
CONTRONATURA
In più di un’intervista il mite e affabile Jòhannson, ben lontano dal maledettismo di Lars Von Trier, ha affermato che per lui «Lamb» è un semplice dramma famigliare con un elemento surreale e che è rimasto molto sorpreso nello scoprire quanto la gente, un po’ in tutto il mondo, sia rimasta terrorizzata dalla sua visione.
Superando la facile lettura evangelico-mariana, scontata anche per il nome della protagonista, che trasfigura il figlio direttamente in agnello, ciò che disturba è la trasformazione del grottesco in normalità, operazione resa possibile solo dall’isolamento naturale della fattoria, ma anche l’effettiva pace che scaturisce nella coppia dal sacrificio sostitutivo della madre naturale di Ada.
«Cosè questa storia?», chiede un allibito Pétur.
«Si chiama felicità», risponde il fratello.
Ed è impossibile non provare tenerezza per l’abbacinante mostruosità di Ada, incapace di concepire il peccato, essere umano appena abbozzato e quindi, privo di libero arbitrio e non gravato dal peccato originale, al tempo stesso orribile torsione antropomorfa di una natalità stroncata e proiezione di un amore filiale distorto e abnorme (abnorme perché distorto).
Per tutto il film l’assenza del sole e le valli a tratti terse, a tratti ingoiate da una nebbia idrofila, disegnano il perfetto scenario claustrofobico in cui gli animali (capre, pecore, cavalli e un cane) osservano l’atto contronatura, quasi in attesa dell’invitabile nemesi, e lo spettatore sembra immedesimarsi in questa Natura immobile e quietamente giudicante, nei primi piani degli occhi caprini, tagliati longitudinalmente come monete, nei branchi al pascolo intrisi di umidità e nell’elemento perturbante che sonnecchia, paganamente, in attesa di versare sangue rituale.
Quello che non può non lasciare allibiti è la maturità della regia, la bellezza della fotografia e il coraggio di una scelta visivamente choccante, senza scadere nella gratuità e nel facile scandalo della sensazione. Accettando questa «sospensione dell’incredulità», evocata più volte dal regista stesso, si scivola nell’archetipo horror del rendere famigliare ciò che famigliare non dovrebbe essere, e nell’identificare il pericolo laddove dimora, o dovrebbe dimorare la sicurezza, come nel mito del Padre-castratore in «Shining» o nelle convulsioni demoniache della figlia ne «L’Esorcista».
Ma «Lamb» è anche una feroce critica all’incapacità del mondo occidentale di elaborare i lutti, cercando surrogati, affettivi o chimici, pur di non accettare la morte come parte del rituale di crescita di ogni essere umano, segnale primo di decadenza civile, obliterato anche dalla laicizzazione della Chiesa, ormai in fuga dai misteri.
Lamb è la celebrazione di un mondo pastorale in cui la Natura, vendicativa e ostile, non accetta ingerenze né intrusioni umane e la cui crudeltà, che è sacra in quanto fondata sul sangue, si trasfigura in vendetta, se forzata nella mitologia minore della coppia borghese.
Germano Innocenti