In Italia la superficie boschiva copre il 40% del territorio nazionale (circa 13 milioni di ettari), e il dato è in continuo aumento: eppure, quest’informazione apparentemente rassicurante e stridente col clima di allarmismo ecologico che pervade l’Europa e il mondo, ormai da quasi un decennio, nasconde una vergognosa tara, visto che l’incremento di cui si parla non è dato da intelligenti misure di rimboschimento o da attente politiche di salvaguardia ambientale, ma dall’abbandono antropico delle zone verdi, soprattutto montane.
La dissennata crescita di alberi ad alta quota e il mancato lavoro di mantenimento che per secoli ha contraddistinto le comunità dedite ad agricoltura e pastorizia, ha aumentato i rischi di incendi, frane e smottamenti, fattore che unito alla speculazione edilizia, produce i disastrosi risultati cui siamo, ormai sempre più di frequente, costretti ad assistere (Marche non molto tempo fa, ed Ischia più di recente).
Le responsabilità non sono solo politiche, ma anche socioeconomiche (l’urbanizzazione esponenziale e l’abbandono dei piccoli centri) e culturali (il venir meno, anche valoriale, di quell’ Umile Italia di cui scriveva Pasolini), al punto che la percentuale di giovani imprenditori dediti alle pratiche selvicolturali è in netto calo, a meno che non ereditino fiorenti aziende familiari.
Da dove ripartire per arrestare questa triste, e a lungo termie autolesionista, china?
EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI PAESAGGIO
Fu Ferdinando II Borbone, nel 1841, il primo a mettere nero su bianco, in una legge che intendeva proteggere le bellezze di Mergellina, Posillipo e Capodimonte, il diritto a «a godere del panorama», scagliandosi contro la dissennata costruzione di edifici privati, che potevano osteggiarne la fruizione e, ottant’anni dopo, il filosofo partenopeo Benedetto Croce (all’epoca Ministro dell’Istruzione del Governo Nitti), dopo aver definito il paesaggio italiano «la bellezza naturale e la sua particolare relazione con la storia civile e letteraria», gli faceva coro difendendone «la carezza del suolo ai nostri occhi», in quanto «rappresentazione materiale e visiva della Patria».
Siamo lontani dalla retorica che di lì a breve si incarnerà non nel patriottismo ma nel nazionalismo fascista (il patriottismo è amore del proprio territorio, il nazionalismo ansia di prevaricazione su quello altrui), ma alla luce proprio della celebre affermazione crociana, «la storia è sempre contemporanea», si cercava (il filosofo cercava) di definire il paesaggio in modo dinamico e culturale e non come una semplice cartolina illustrata.
La legge n.1497/1939 farà un deciso passo indietro promuovendo la tutela paesaggistica solo dal punto di vista estetico, quindi immobile, e produttivo, quindi antropocentrico, ignorando che il territorio esiste e va rispettato anche a prescindere dalla rendita agricola o pastorale che genera: è emblematica in tal senso la concezione di allora delle «zone umide» (stagni, paludi, acquitrini) non visti come preziosi scrigni di biodiversità, ma solo come aree infette da bonificare a scopo sanitario o rurale.
La Legge Galasso del 1985, in grado di cristallizzare l’aumento di sensibilità ecologica internazionale, poneva l’accento sul concetto di sviluppo sostenibile, migliorando (in senso restrittivo) il regime vincolistico e ampliando quello sanzionatorio, ma fu l’introduzione del Codice Urbani, approvato nel 2004 e anche lui frutto del recepimento di un’estesa legislazione internazionale, a definire il paesaggio come bene culturale, integrato e complesso, in continua evoluzione con le dinamiche sociali, tecniche ed economiche della Comunità.
Ed è proprio nell’interazione fra l’elemento entropico e quello ambientale il segreto di bellezza che porta ogni anno milioni di visitatori nel Belpaese, creando un’Italia «hollywoodiana» più reale dell’Italia stessa, secondo il principio che per cogliere la bellezza pienamente serve un occhio esterno, altrimenti si rischia di restarne abbagliati o indifferenti, per l’adagio sociologico della viscosità; tale interazione viene tutelata e incoraggiata negli orti urbani, nelle comunità montane, per gli usi civili dei terreni abbandonati o incolti, ma anche nel rapporto fra comunità residenti e parchi (o aree riservate) che nel nostro paese sono decisamente più rilevanti rispetto a Stati Uniti, Russia o Estremo Oriente, vista l’alta densità abitativa interna o limitrofa agli stessi.
UN ALBERO PER IL FUTURO
Al di là del fondamentale ruolo di compilazione e aggiornamento dell’Elenco degli alberi monumentali e boschi vetusti, i Carabinieri forestali collaborano con gli enti, nazionali e locali, sia alla tutela delle riserve naturali che a quella delle foreste demaniali, ma di recente, nel quadro del progetto nazionale di educazione ambientale per l’anno scolastico 2022/2023, hanno lanciato l’iniziativa «Un albero per il futuro», che consente ad ogni istituto scolastico che desidera partecipare, compilando il relativo format, di accudire e geolocalizzare le piantine donate loro proprio dal Raggruppamento Carabinieri Biodiversità, nell’ottica di costruire un grande bosco diffuso volto a ridurre il quantitativo di anidride carbonica nell’aria.
Questo progetto prevede la donazione e messa a dimora di circa 500 mila piantine nel triennio 2020/2023, e attualmente sono 9000 gli istituti scolastici che hanno aderito, ma la già lodevole iniziativa si è arricchita anche di risvolti civili: alcune gemme del Ficus che cresce nei pressi della casa del giudice Giovanni Falcone (assassinato dalla Mafia nel 1992, ndr), sono state prelevate dai Carabinieri e, grazie alla collaborazione con la Fondazione Falcone e la Soprintendenza di Palermo, successivamente duplicate dal Centro Nazionale Carabinieri per la biodiversità forestale (CNBF) di Pieve Santo Stefano (AR), e quindi donate a 108 istituti tra primarie di primo e secondo grado.
L’ecologia si intreccia con l’educazione civica e il rispetto della legalità, sotto il minimo comune denominatore dell’impegno civile e contro ogni forma di omertà, ambientale o politica. Il «lasciar fare» assoluto produce perniciosi incendi, e nel disinteresse pubblico non c’è colpa ma solo dolo.