Todo Modo: la versione di Petri

da | Nov 23, 2022 | MONDOVISIONE

Quando, nel 1976, uscì la riduzione cinematografica del romanzo «Todo Modo» di Sciascia, ad opera di Elio Petri, che ne scrisse la sceneggiatura a quattro mani con Berto Pelosso e ne affidò la scenografia al visionario Dante Ferretti, di tutto si poté parlare tranne che di «riduzione», visto che la pellicola dilata il contenuto del soggetto ben oltre le intenzioni dello scrittore siciliano: proprio quest’ultimo dichiarerà che la sua opera voleva essere una critica alla Chiesa, mentre il lungometraggio di Elio Petri era divenuto un attacco frontale all’intera classe dirigente, oltre a rappresentare il film sulla e contro la Democrazia Cristiana che Pasolini non aveva fatto in tempo a realizzare (essendo morto un anno prima, nel 1975).

Va ricordato che Sciascia e il poeta di Casarsa si conoscevano e stimavano reciprocamente e che fu proprio Pasolini a scoprire e incoraggiare lo scrittore ai suoi esordi: l’assassinio all’Idroscalo di Ostia colpì profondamente l’autore di Todo Modo, che si definì «più solo» dopo l’immane tragedia visto che «con Pasolini era sempre d’accordo, anche quando aveva torto».

Il film di Petri, a differenza del Salò pasoliniano, col quale presenta molte analogie, sia estetiche che simboliche, non subì una vera censura ma un certo ostracismo culturale e un’evidente penuria distributiva, per non parlare della damnatio memoriae più che ventennale derivatagli dall’aver in qualche modo «predetto» la morte di Aldo Moro, che avvenne appena due anni dopo la sua uscita.

MEMENTO «MORO»

A differenza del romanzo, narrato in prima persona da un pittore abbastanza famoso (alter ego dello scrittore che di solito si esprimeva invece in terza persona), nel lavoro di Petri l’io narrante è la macchina da presa che racconta una tre giorni di esercizi spirituali da parte di un’accolita di potenti (un ministro, svariati politici, direttori di giornali, industriali e via dicendo) nell’eremo-albergo Zafer, gestito dal prete gesuita Don Gaetano.

Nonostante Gian Maria Volonté imiti Aldo Moro esteticamente, nella gestualità e persino nel modo di parlare, e nonostante Michel Piccoli sia l’evidente sosia di Andreotti, non solo l’adozione di nomi generici (il Presidente, Lui …) ma anche la caricaturale recitazione ai limiti del grottesco, misero l’opera al riparo da censure e possibili querele, e le permisero di non esaurire la propria carica provocatoria alla sola Dc, divenendo un’universale metafora della consunzione politica e dell’ambiguità del potere.

Sciascia descrive tre morti in «Todo Modo», segregando i potenti in un bozzolo paranoico di indagini istruttorie e possibili moventi, mentre Petri li fa morire tutti uno ad uno, con un finale espressionista che ricorda proprio il girone del sangue pasoliniano in Salò, e in questa parabola (auto)distruttiva, immortala il canto del cigno di una casta vicina al compromesso storico e non più capace di intercettare la fiducia del popolo, né a livello elettorale né sul piano morale.

La pellicola, che involontariamente realizza l’amore «filiale» mai nascosto dello scrittore siciliano per le maschere di Luigi Pirandello, è teatrale in tutto: dal parodico mimetismo di Volonté alle statue stranianti di Ferretti, dai movimenti scenici alla crudeltà anti-naturalista di Mastroianni, il cui personaggio (Don Gaetano) è meno sfruttato dal punto di vista temporale rispetto al romanzo, ma la cui ferocia diviene il contraltare espiatorio della finta bonomia del Presidente (e per scovare un Mastroianni così luciferino bisogna rievocare il pilota de «La Grande Abbuffata»).

Il direttore della fotografia convinse il regista a girare in 25 millimetri e il grandangolo finì con lo schiacciare le inquadrature creando un film «orizzontale» e claustrofobico, come l’anticlimax che lo anima: inoltre, non va dimenticato che il grandangolo è l’obiettivo delle telecamere a circuito chiuso e, più in generale, dei dispositivi di controllo, elemento che trasformò una scelta estetica in decisione etica, con il Potere/Panopticon che pervade ogni (grand)angolo del bunker ipogeo di matrice dantesca (qui ci riferiamo all’Alighieri, non al Ferretti).

L’incredibile prova di Ciccio Ingrassia, dirigente minore dall’oscuro passato a base di abusi sessuali e pronto all’auto-martirio e alla flagellazione (indossa persino una cintura di castità) pur di rientrare nelle grazie del Presidente e quella di Franco Citti, silenzioso sicario del sottoproletariato e quindi (di nuovo) Accattone ma in borghese, si fondono all’ecolalico balbettio degli acronimi pronunciato dai potenti chiamati a rendere pubblici i propri interessi in enti o società a partecipazione statale; e qui si scivola nell’Assurdo ministeriale e nell’involontaria parodia delle sigle (post)fasciste.

Il taglio concentrazionario di «Todo Modo» (si vagheggia un’epidemia in corso all’esterno) con la reclusione più o meno volontaria dei protagonisti nell’eremo-carcere ci conduce di nuovo a Sade/Salò e sarà proprio Don Gaetano a parlare delle cristianità del Divin Marchese, ma la religione in questo film è così intrecciata alla politica che Gian Maria Volontè finirà col vestirsi da prete incoraggiato da un mefistofelico Mastroianni: «è un po’ come vestirsi da donna, d’estate io non indosso neanche le mutande, a volte».

Todo Modo rinnova, consacra ed esaurisce il sodalizio fra Petri e Volontè ma a differenza de «Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto», in cui il potere doveva reprimere e la legge si voleva «immutabile e scolpita nella pietra» o dell’aperta denuncia marxista alla catena di montaggio ne «La Classe operaia va in Paradiso», il potere è qui tutto nel linguaggio, nell’abuso di avverbi altisonanti e nelle retoriche perifrasi che hanno ormai perso ogni valore reale, ed è magistrale in tal senso proprio la recitazione di Volontè: «Sono buono io!! Non rubo!!» e Don Gaetano: «Rinunceresti al potere?» e lui: «Chi c’è meglio di me?»

Con «Todo Modo» si esaurisce una stagione di cinematografia politica che proprio con Petri, Rosi, Bellocchio, Montaldo, ma anche Bertolucci e ovviamente Pasolini, ha saputo cogliere la fine di narrazioni collettive più che trentennali, misurando la temperatura al laicismo crescente (è del 1978 la legge sul divorzio) e a una dissoluzione cattolica coeva agli anni di piombo; eppure, la pellicola di Petri sublima l’omonimo romanzo e spinge la metafora sulla collusione del potere fino al monito universale rappresentato dai cumuli di cadaveri giustiziati da un’invisibile nemesi, col rosario in bocca e su un tappeto di dossier insanguinati.

L’ipocrisia di quelli che lo stesso Petri definì «striscianti topi di sagrestia» sta tutta nella parte femminile del film e cioè in un coro di suore che presiede all’epilogo presidenziale, rigorosamente di spalle, e nella moglie (Mariangela Melato) pronta a scoprire il seno a comando per poi pentirsi, segregata in camera, laddove nel romanzo di Sciascia ad essere celate erano soltanto le amanti.

Il confessionale e l’urna si sovrappongono, il votivo e il votante s’intrecciano nell’allucinazione collettiva di un partito in grado di catechizzare un popolo per ben più del ventennio fascista: «Tu ha le stimmate?», «Beh si, anche adesso, mi pare …», «Io non vedo niente».

Io sono Petri e su questa pietra …

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