Grande lettore delle Sacre Scritture, di patristica e misticismo, con un approccio religioso alla Borges («Non credo in Dio ma me ne interesso tantissimo»), ma anche personaggio politico prima comunale e poi parlamentare (Camilleri ha curato un’antologia delle sue interpellanze), Leonardo Sciascia approda alla scrittura del romanzo «Todo Modo» non solo come summa delle sue frequentazioni letterarie ma anche col desiderio di «processare» la Chiesa Cattolica, sebbene con rito abbreviato, come ebbe a ripetere più volte nelle interviste dedicate.
Pubblicato nel 1974, in anni di grande fervore e militanza politica, l’esile romanzo dallo stile asciutto ma non privo d’ironia, è diventato uno dei testi più profetici della letteratura italiana contemporanea, anticipando il ventennio successivo e fissando, attraverso un’ambientazione grottesca, la viscosità del potere e la sua inafferrabile trasversalità.
Uno degli aneddoti meno conosciuti su questo piccolo capolavoro è che il nome della struttura-teatro degli avvenimenti narrati (l’eremo-albergo «Zafer») deriverebbe proprio da un viaggio dello scrittore, qualche anno prima, in un residence di Zafferana Etnea dove la classe dirigente dell’allora Democrazia Cristiana era in ritiro per degli «Esercizi Spirituali».
TODO MODO
«Todo Modo para buscar y hallar la voluntad divina”, e cioè “ogni mezzo per cercare e trovare la volontà divina”, dagli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio di Loyola, fondatore dei Gesuiti: eppure questa frase non compare mai all’interno dell’opera anche se Don Gaetano, coprotagonista o deuteragonista dell’io narrante, dirà in un momento di ambiguo raccoglimento di essere interessato più alla volontà di ognuno di salvarsi che non alle scelte compiute per raggiungere tale obiettivo.
Un pittore famoso, sentimentalmente solo e senza particolari impegni, si imbatte durante una Promenade in auto in una struttura brutalista in cemento che si rivela essere un eremo-albergo gestito da religiosi al vertice dei quali troneggia l’eminenza grigia di Don Gaetano. Entro due giorni, l’hotel-rifugio Zafer sarà colonizzato da ministri, sottosegretari, industriali, presidenti, direttori di giornali e via dicendo, per una settimana di esercizi spirituali, avvenimento che si ripete a cadenza annuale e sotto la supervisione del Don, a sua volta filantropo, proprietario di altri tre alberghi e non estraneo all’agone politico; incuriosito, o forse solo annoiato, il protagonista (alter ego dello scrittore) deciderà di fermarsi per assistere al «tagliando» spirituale dell’intera classe dirigente, intavolando eruditi simposi con Don Gaetano e osservando divertito, insieme al cuoco, la preghiera collettiva degli astanti riuniti in un mobile quadrato dalla volontà parossistica del prete.
Fra segrete trame e correnti di partito in lotta, allusioni a rovinosi segreti e una religione sempre più pirandelliana nella capacità di mascherare gli intrighi di palazzo, due omicidi ravvicinati e apparentemente senza movente (o con troppi moventi per individuarne uno soltanto) apriranno le porte di Zafer al Procuratore Scalambri, con relativo seguito di poliziotti e Commissario.
La seconda parte del romanzo dilata l’istruttoria fino alla paranoia col «povero» (abusato termine della modernità, per Don Gaetano) Scalambri intento a ricomporre i lati del quadrato, che poi si scoprirà essere un trapezio, per individuare i possibili sospetti del colpo d’arma da fuoco che ha freddato la prima vittima, mentre dietro le citazioni erudite e i dialoghi tranchant, si iniziano a intravedere il caustico cinismo del Don, rivolto alla generale collusione, e un senso di disfacimento politico che nessun esercizio spirituale potrebbe mai risollevare.
Sulla scia di Dürrenmatt, Sciascia inscrive in un’opera essenzialmente grottesca una sottotrama «gialla» dal finale aperto all’interpretazione del lettore, che disarma ma non delude poiché l’ambiguità resta la cifra de la Comédie Inhumaine di Todo Modo.
IL POTERE È SEMPRE ALTROVE
All’ingresso dell’Eremo, Don Gaetano mostra al protagonista pittore una brutta imitazione del quadro di Rutilio Manetti «Sant’Antonio Abate tentato dal demonio», esposto nella chiesa di Sant’Agostino a Siena: l’eremita Zafer, ritratto come un santo scuto e barbuto, rifiuta il dono del diavolo, e cioè un paio di occhiali neri a pince-nez che se inforcati gli permetterebbero di migliorare la vista, ma al prezzo di trasformare ogni Sacra Scrittura in un passo del Corano.
Il sacerdote possiede un identico paio di occhiali, possibile metafora di mistificazione che ben simboleggia l’ambivalenza del personaggio in grado di sfuggire a una precisa classificazione morale per tutto il romanzo: «non mi darete il dolore di dirmi che lo stato c’è ancora […] alla mia età, e con tutta la fiducia che ho avuto in voi, sarebbe una rivelazione insopportabile», proferisce il prete a tavola suscitando un’ilarità forzata in tutti i commensali, e ancora: «Non c’è fuga da Dio; non è possibile. L’esodo da Dio è una marcia verso Dio.» «L’invenzione della legge sta a significare che siamo tutti colpevoli», è un’altra delle frasi lasciate «grandinare» da Don Gaetano sui suoi attenti ascoltatori, che ne subiscono fascino e erudizione, ma anche l’oscuro potere ricattatorio da parte di un uomo a sua volta ricattabile in quanto parte del medesimo ingranaggio che si diverte a irridere, ed è in questo ossidato nodo di Alta Finanza e spiritualità posticcia, morale cattolica e ipocrisia piccolo borghese, che si cela la straordinaria forza narrativa di Sciascia che non lascia intravedere, proprio fra le maglie dell’istituzione che ne custodisce il primato e l’esercizio, alcuna possibilità di assoluzione.
I continui riferimenti all’arte sacra, come «l’ottusa sofferenza» del Cristo di Antonello da Messina, il «Miserere» di Roualt o la «Tentation» di Redon, che sembra aver ricevuto in dono, lui per primo, il vero volto di Gesù da dipingere, non sono i sintomi di un’incrollabile passione religiosa e nemmeno i segni dell’incondizionata ammirazione per la rappresentazione iconica, ma lo svogliato esercizio di stile di un uomo annoiato dalla propria, vuota, sapienza, non più sorretta dalla fede, né in Dio né negli uomini, che pure ama per la loro imperfezione.
Confinate nel bosco limitrofo alla Zafer, le amanti dei notabili, ammirate di sottecchi dal pittore, sono formose e sgargianti, (in)fedeli alla legge per cui un uomo di potere ricerca nella moglie una fisicità claustrale e nell’amante una sensualità molesta e un po’ volgare, e in questo Sciascia resta coerente con la propria visione della donna in letteratura, che diviene sublime solo se diabolica o corruttrice.
Ma l’insegnamento più importante di Todo Modo, che ne sublima la contemporaneità sfiorando l’assoluto è tutto in questa frase: «[…] quella che si suole chiamare classe dirigente. E che cosa dirigeva in concreto, effettivamente? Una ragnatela nel vuoto, la propria labile ragnatela. Anche se di fili d’oro.»
«Il Potere è sempre altrove» dichiarerà in un’intervista postuma l’uscita del libro lo scrittore siciliano, ed è in questo vuoto autoreferenziale e di linguaggio che si reitera il mistero di una classe politica mimetica come l’intrattenimento che l’ha partorita e pronta a inglobare tutto pur di battere il tempo all’auto-cannibalizzante prospettiva del progresso.