A maggio 2023, l’ultima versione Disney de «La Sirenetta» metterà in scena un’Ariel afroamericana (per la precisione l’attrice Halle Bailey) e, fra le clip di bambini di colore che mostrano il proprio entusiasmo di fronte al trailer e il plauso del movimento Lgbtq+, una considerevole fetta di spettatori ha invece espresso il proprio dissenso con quasi due milioni di dislike e la creazione dell’hashtag #notmyariel.
La principale critica alla scelta del colosso dell’intrattenimento è quella di inaderenza filologica all’originale, ma anche il sospetto di un eccesso di politicamente corretto, critiche che si sono estese anche agli attori neri e asiatici de «Gli Anelli del Potere», serie targata Amazon ispirata al capolavoro di Tolkien, la cui Terra di Mezzo, sospesa in un eterno Medioevo Occidentale (o occidentalista), non prevederebbe «quote gialle o nere».
Che la visionaria opera del linguista e accademico britannico abbia da sempre creato diatribe sia politiche che filologiche non è un mistero (basta recuperare la querelle-querela- sulla sua ultima traduzione, o guardare al numero impressionante di band metal di chiara ispirazione nazista che hanno scelto di chiamarsi come alcuni dei suoi personaggi o luoghi d’elezione), ma qui il discorso si complica perché, per alcuni, dietro la difesa dell’originale, si nasconderebbe il razzismo.
La pensa così la scrittrice afroamericana Djrah Kan, che motteggiando disgustata «la supremazia della fantasia bianca», ci ricorda che esistono eccome sirene di colore (le «njuzu» dello Zimbabwe), e che non si tratta solo di nostalgia Anni Novanta, ma di un fenomeno più complesso che sagoma da secoli miti ariani, imponendo un modello estetico e culturale che ha prodotto abomini come i prodotti cancerogeni per lo «sbiancamento» della pelle, oltre ad aver ridimensionato sogni e desideri di milioni di adolescenti di colore.
Da un lato, quindi, i censori di una politica più degenere che di genere (per loro, ovviamente), gli stessi che polemizzarono per il Will Smith di «Io sono Leggenda» o per il Montag di colore in «Fahreneit 451-2018», dall’altro chi invoca la massima libertà interpretativa, soprattutto di un classico, se viene conservato integro il messaggio alla base della trama.
Ai primi si potrebbe rispondere che l’Eric de «La Sirenetta» non è affatto biondo e con gli occhi azzurri come nella riduzione del 1989, ma moro e dagli occhi scuri (nel testo di Andersen), e che Ariel e famiglia non hanno un pedigree danese (né greco, per restare nel fenotipo mitologico) ma provengono da «lontano, nell’oceano», e che più in generale nessuna libertà interpretativa di questo tipo ha causato un disturbo equiparabile a quello razziale della scelta del casting.
Inoltre, fattore non trascurabile, le sirene non esistono e nemmeno la Terra di Mezzo, anche se alcuni autori (Curzio Malaparte su tutti) ci hanno voluto convincere paradossalmente del contrario, e ogni giorno migliaia di adepti tolkeniani ridisegnano le mappe topografiche della Contea o di Mordor, con la dedizione di esploratori portoghesi del Quattrocento.
Eppure, la questione è complessa e parte da lontano: La Disney ha rimosso dal proprio catalogo «Gli Aristogatti», poiché i felini siamesi vi sono rappresentati «con tratti caricaturali orientali»; lo stesso è accaduto a «Peter Pan», visto che i membri della tribù di Giglio tigrato vengono chiamati «pellirossa» (e sono certo che tale rimozione abbia giovato alla memoria dei cento milioni di nativi sterminati), e risibili censure si sono abbattute sui sovradimensionati padiglioni auricolari del povero Dumbo, poiché in una sua canzoncina si insinua che i neri delle piantagioni non fossero in grado di risparmiare, per non parlare delle facili diatribe contro film come «Via col Vento», «La Capanna dello Zio Tom» o «Il buio oltre la siepe» (opera smaccatamente progressista ma rea di utilizzare l’imperdonabile «nigger»).
Proseguendo lungo questo filone sarebbe inevitabile non definire antisemita lo Shakespeare de «Il Mercante di Venezia», sessista il Leopardi che si accanisce contro la Malvezzi nella lettera ad Antonio Papadopoli del 1828, e violenta la premiata ditta Kubrick/Burgess per «Arancia Meccanica»: le opere che abbiamo amato devono restare cristallizzate nella nostra infanzia per non destabilizzare la nostra visione del mondo, i nostri ricordi e le conseguenti strutture di potere implicite, oppure dobbiamo ricordare in quale periodo storico, ambito geografico e orizzonte culturale scriveva il nostro autore di riferimento, e autorizzare quello che Carmelo Bene definiva «Il massacro dei classici»?
In altri termini, perché non scagliarsi contro le inevitabili imprecisioni, storiche e letterarie, delle trasposizioni che vediamo, invece di fermarci alla questione razziale? E ancora, perché non concepire che un simbolo, se veramente tale, può diventare portatore di un messaggio universale, anche se esteticamente lontano dalle coordinate originali che lo definirono?
Ciò non toglie che l’abuso del politicamente corretto, il femminismo imperante che vede ovunque body shaming e cat calling, abbiano trasformato questioni politiche di primo piano in poco edificanti shit storm da social network, inaugurando, a livello cinematografico, una paradossale «dittatura delle minoranze», e più in generale la logica appianante della «cancel colture», che può confinare pericolosamente col revisionismo.
Bisogna smettere di leggere Cèline poiché antisemita e filonazista? Bruciare D’Annunzio e Ungaretti in quanto autori di regime, o stigmatizzare Fo e Pirandello per le foto in divisa d’orbace?
La realtà è molto più complessa di quanto gli autoeletti custodi della morale non vogliano farci credere e nulla è immobile dal punto di vista della fantasia, quindi, ben vengano nuove opere e nuovi simboli, poiché l’unica tara da combattere è la sterilità, e la coerenza è mutevole come l’immagine che si ricompone dopo il lancio di un sasso in uno specchio d’acqua.
In questi giorni è in programma, in vari teatri italiani, un Otello integralmente al femminile e senza nemmeno attrici afroamericane, e quando Jago pronuncia: «la Gelosia è un mostro dagli occhi verdi che dileggia ciò di cui si nutre», non si ha bisogno di qualificare nessun altro colore.