La crisi ambientale in corso, l’emergenza idrica e l’inarrestabile flusso demografico, uniti al surriscaldamento globale e all’allarmante aumento delle emissioni di anidride carbonica, stanno rendendo il cibo e il suo futuro prossimo una delle principali preoccupazioni nelle agende dei governi europei, e non solo.
L’aumento di obesità e carestia, siccità e anoressia, denunciano non solo le intollerabili disparità nella redistribuzione delle risorse alimentari ma anche i cortocircuiti culturali che l’edonismo capitalista ha trasferito dalle Borse ai piatti: l’ingordigia del bulimico e l’eterna fame dell’anoressico sono gli specchi del vuoto che si annida dietro un benessere fittizio, privo ormai di strutture simboliche che non riguardino il denaro, un Vuoto che ha rinunciato ad essere rappresentato dalla religione e dalla politica, regni «a venire» per definizione, e che sceglie il cibo come declinazione di un eterno presente.
Ingurgito ergo sum.
Eppure, a fianco al food porn e alle novità instagrammabilmente votate alla prima o seconda stella Michelin, una nuova idea di cibo si diffonde dai paesi che più di tutti hanno adottato la sostenibilità come stile di vita, e cioè Scandinavia e Danimarca.
Non contro ma parallelamente allo sviluppo digitale, che ha trasformato la dimensione oggettiva in liquidità, cercando il mito (anche alimentare) del tutto e subito e del tutto e ovunque, dai Paesi Nordici si diffonde, con un inconfondibile aroma di affumicatura, il recupero della materia prima e della stagionalità, nuovi mantra di un’attenzione al territorio, non necessariamente legata all’animalismo o al veganismo, ma a un rapporto col cibo di attenzione e rispetto, curiosità e modernismo.
SIAMO TUTTI BRUTALISTI
Da poco a Stoccolma l’artista Carsten Höller, provocatorio performer e sodale di Prada, nonché esperto di gastronomia e con una vera e propria ossessione (anche visiva) per i funghi, ha aperto il «Brutalisten», ristorante brutalista che decide i suoi menu alla giornata grazie all’inventiva dello chef Stefan Eriksson e di Höller stesso.
In uno spazio limitato (appena 28 coperti) va in scena quotidianamente il «Manifesto della cucina brutalista», partendo dalle pietanze Semi-Brutalisten, che prevedono un’aggiunta di olio, passando attraverso quelle Brutalist, che accettano solo acqua e sale, per arrivare alle Ortodos-Brutalist in cui compare un solo ingrediente nella sua nuda sostanza: le parole chiave sono stagionalità, se non micro-stagionalità, ecologia e biodinamicità, mentre vige fra i fornelli il primato dell’ingrediente sulle ricette.
Facendo un veloce excursus, l’architettura brutalista, cui la cucina di Höller si ispira, è un movimento sorto nella seconda metà del Novecento che prediligeva l’uso dei materiali grezzi (brutalista da «béton brut», e cioè cemento a vista in francese), contro la tendenza decorativa dell’arte moderna; la funzionalità e la forma, la grandeur e un certo credo collettivista che l’ha portata a virare verso edifici pubblici, teatri, scuole e via dicendo, l’ha resa nel tempo invisa alle più avanzate posizioni architettoniche (vedi il disprezzo per lungo tempo patito dalla Torre Velasca a Milano, ribattezzata la torre con le bretelle) ma di recente, anche grazie alla fotogenicità delle sue linee squadrate, virali sui social, è tornata di moda guadagnando anche un hashtag (#sosbrutalism) creato per calamitare l’attenzione sugli edifici ascrivibili alla corrente che versano in pessime condizioni.
Höller ha dedicato la stessa cura non al cemento, al vetro, al mattone o all’acciaio ma agli ingredienti base della sua cucina, usandone uno soltanto ma in tutte le sue parti, invece di armonizzarne di diversi: «non si tratta di rifiuto dell’elaborazione ma della combinazione […] un piatto brutalista è un ingrediente diviso in unità […] l’obiettivo è scavare verticalmente nel gusto di un determinato ingrediente e liberarlo dal rumore di fondo», ha dichiarato in più di un’intervista.
Scorrendo il suo Manifesto, che ricorda un po’ quello futurista di Marinetti (anche lui molto interessato alla cucina) si legge: «non sono ammessi ingredienti diversi nello stesso piatto, devono essere presentati come unità diverse e i piatti possono essere serviti contemporaneamente […] il mangiatore può combinare a suo gusto ogni ingrediente», gesto impedito allo chef che subisce il tabù dell’amalgama, ma nonostante tali comandamenti sembrino preconizzare una sorta di espressionismo culinario, il Brutalisten è un vero e proprio ristorante, tra l’altro con porzioni enormi e un’attenzione pressoché nulla all’impiattamento, com’era prevedibile visto il credo estetico cui si ispira.
La frase che sembra rappresentare al meglio la filosofia brutalista in cucina è: «siamo tutti nati come mangiatori brutalisti, poiché il latte materno è essenzialmente brutalista» e quest’affermazione, ai limiti dell’aforisma, sponsorizza la generazionale ricerca di sapori reali e radici culinarie in un periodo storico in cui truffe e sofisticazioni non risparmiano l’alimentazione: in un inizio millennio in cui le copie hanno sconfitto l’originale e la profezia seriale di Wharol si è perfettamente realizzata, stabilire un rapporto emotivo con la materia prima, come sembra suggerire Höller, significa inaugurare più un’etica che un’estetica e sostituire alla verosimiglianza una voluttuosità quasi ancestrale.
Granchi cotti nel loro guscio, asparagi al vapore serviti con salsa d’asparagi fermentata, birra senza luppolo e bibite analcoliche a base di frutta e alghe, il tutto pronto a confluire nel ganglio esistenziale della gastronomia brutalista: «imporre delle costrizioni ti costringe ad esplorare nuovi territori, a trovare dei modi per evolvere», frase che unisce alla ricerca artistico-individuale l’impegno ad armonizzare il proprio nutrimento col mutamento ecologico in corso.
La New Nordic Cuisine, sostenuta (anche economicamente) dai governi scandinavi e da quello danese, punta ormai da un decennio e oltre alla purezza e freschezza degli ingredienti stagionali e alla salvaguardia dei sapori naturali, convergendo su una territorialità che, con l’aumento dei costi energetici (e quindi dei trasporti) potrebbe evocare un nuovo, suggestivo, feudalesimo enogastronomico.
Da qualche anno il Noma, eletto come miglior ristorante al mondo e premiato con tre stelle Michelin, diffonde il verbo dello chef René Redzepi da un vecchio deposito di bombe ristrutturato nel ventre del quartiere hippie di Christiania, a Copenaghen, uno spazio di 1200 metri quadri più simile a un tempio o a una foresta alchemica che a una struttura ricettiva.
Deposti su nidi, ramage forestali e a volte senza posate, guarniti da un neo-garum vegetale che ricorda quello della Roma Antica, babà saltati su fondo d’orso e cervello di renna, vengono serviti nei crani degli stessi animali ed anche se la cucina del Noma è il regno della sperimentazione contro il mono-ingrediente brutalista, entrambe le esperienze gustative sembrano tracciare la rotta verso un nuovo Primitivismo, anti-ornamentale e viscerale.
Dai paesi della notte polare si diffonde la luce zenitale del futuro gastronomico mondiale.