Commentando la quattordicesima edizione di Terra Madre Salone del Gusto, l’evento di Slow Food avvenuto a Torino pochi giorni fa, Carlo Petrini (che dello Slow Food è leader, fondatore e nume tutelare) ha affermato: «dobbiamo prendere atto che la politica planetaria non sta affrontando la crisi del sistema alimentare, perciò è tempo di concepire i cambiamenti individuali come atti politici.»
In una lettera aperta a La Repubblica, lo scorso 24 settembre, il sociologo ha rilanciato l’importanza del vocabolo sostenibilità nel binomio ambiente/alimentazione, anche alla luce dei recenti eventi cataclismatici che, non senza una certa ironia nera (che funziona solo se riverbera contro sé stessa), potremmo definire glocal viste le inondazioni, date dai violenti nubifragi, avvenute in Pakistan ma anche quanto accaduto da noi nelle Marche.
«Dobbiamo metterci in testa che le nostre scelte alimentari sono atti politici di tutto rispetto», ha scritto Petrini ponendo l’accento sull’età media (bassissima) dei nuovi delegati di Terra Madre, e su quanto le nuove generazioni possano fare per veicolare una vera e propria rivoluzione nello stare a tavola, sineddoche gastronomica dello stare al mondo.
Gli argomenti (e la semantica) che accompagnano la filosofia dello Slow Food non sono innovativi: da anni ormai si sente parlare di economia circolare e cucina di recupero, di riciclo e limitazione degli sprechi, di diminuire il consumo di carne, visto che gli allevamenti intensivi sono fra le principali cause del depauperamento idrico e dell’aumento di emissioni di anidride carbonica, di rifiuto degli alimenti ultraprocessati e super-imballati (ai limiti della mummificazione, chiosa Petrini), ma anche, dialetticamente, della valorizzazione dei prodotti stagionali, locali e freschi, e della biodiversità dei legumi.
Eppure, questi temi sembrano sbiaditi come il flash mob di una rivoluzione mancata perché la politica se ne è servita in modo strumentale ma non li ha realmente accolti nella sua agenda, obliterando un’attitudine nei confronti della crisi climatica di spaventosa retroguardia. Di recente ci siamo occupati della sparizione del dibattito ecologico dall’agone pre-elettorale, a favore del problema energetico e del caro bollette, come se non si trattasse dei due lati della stessa medaglia, ma la questione non è tanto l’arretratezza (spesso anche culturale) della nostra classe politica, quanto la velocità con cui i cambiamenti stanno avvenendo nel nuovo millennio: evidenziato dalla rivoluzione digitale, il cortocircuito ambientale/alimentare flirta con l’Apocalisse a una rapidità, data dal Capitalismo imperante, stretta parente dell’irreparabile.
La proposta di Petrini è quella di ripartire dal cibo bypassando la politica di governo a favore di una politica del popolo che si realizzi nel quotidiano attraverso una miriade di piccoli gesti; potrebbe suonare retorico ma ogni mutamento inizialmente lo è (anni fa il termine «riciclo» sembrava ornamentale, attualmente è il motore propulsore di ogni dibattito democratico a lunga scadenza) e forse, come afferma Giorgione, istrionico personaggio televisivo ma anche filosofo della cucina territoriale, « a volte la tradizione è sbagliata» e va ripensata.
Più che sbagliata, la tradizione (anche gastronomica) è la sublimazione concettuale del periodo storico che la partorisce e molto del nostro know-how culinario discende da un ambiente ricco di risorse e da un’idea di abbondanza che attualmente, con una demografia metastatica e un degrado climatico senza precedenti, non sono più in essere.
Il mondo si è rimpicciolito, sia a livello di spostamenti che sul piano comunicativo, ma anche ciò che può offrire in termini di biodiversità si è ridotto e se il genere umano, questa deviazione dal genere animale dotata d’un surplus di autocoscienza che sta trasformando il libero arbitrio in autodistruzione, non si adatterà all’ambiente (definizione dell’intelligenza da sussidiario delle scuole superiori), l’estinzione ci attenderà alla velocità di una noce di burro su una padella antiaderente (per restare nella metafora edibile).
I millimetri in millenni sono diventati centimetri in ventenni, il surriscaldamento si espande innalzando il margine di vinificazione a latitudini prima impensabili (Inghilterra, Scandinavia), e se questo da un lato solletica l’immaginario distopico di menti allenate ad evocare la fine del mondo («ogni generazione vorrebbe essere l’ultima», scriveva Chuck Palaniuk qualche decade fa), dall’altro induce a ripensare proprio il concetto di tradizione.
Il recente rapporto «Thinking about the future of food safety- A foresight report», pubblicato dalla FAO lo scorso marzo 2022, si è posto proprio l’obiettivo di aiutare i responsabili politici mondiali ad anticipare i futuribili problemi ambientali, piuttosto che a subirli e, coprendo 8 macrocategorie (cambiamenti climatici; nuove fonti alimentari e sistemi di produzione; numero crescente di fattorie e orti nelle nostre città; scienza del microbioma; innovazione tecnologica e scientifica; frodi alimentari; economia circolare; cambiamento del comportamento dei consumatori) ha evidenziato proprio nel mutamento di mentalità della domanda, uno dei principali fattori di sopravvivenza mondiale.
Meduse, alghe, insetti e carne a base cellulare sono risorse in espansione, come sono in aumento le persone dedite al vegetarianismo e al veganismo ma ai vantaggi che tali innovazioni possono introdurre su scala globale (le meduse hanno un alto contenuto proteico, le alghe non hanno bisogno di fertilizzanti, combattono l’acidificazione degli oceani e hanno un alto valore nutritivo, gli insetti sono un’inesauribile fonte di proteine, fibre ed acidi grassi) si accompagnano certificati rischi patogeni (allergie e intolleranze per gli insetti; la tendenza, da parte delle alghe, ad accumulare alti livelli di metalli pesanti e la facilità con cui le meduse tendono a deteriorarsi a temperatura ambiente e ospitino batteri patogeni, per fare degli esempi).
Stesso discorso per le bistecche a base cellulare, che avverano la profezia di Winston Churchill: «sfuggiremo all’assurdità di far crescere un pollo intero, solo per mangiarne il petto o l’ala, facendo crescere queste parti separatamente in un ambiente adeguato», e che però possono diventare pericolose per l’uso di siero di origine animale nei terreni di coltura, che può introdurre contaminazione microbiologica e chimica.
Se tradizione, etimologicamente, significa «consegnare», si potrà consegnare alle generazioni future solo ciò che può sostenere la post-modernità: per fare due esempi di tradizioni «sbagliate», le nostrane mattanze di tonni o quelle asiatiche di squali (per ottenerne la di fatto insipida zuppa di pinne) sono ormai incompatibili con un’idea innovativa di alimentazione.
Coltura e cultura dovranno essere dei termini equipollenti nell’immediato futuro, come la crasi fra tecnologia e ambiente vaticinata dal filosofo Floridi, secondo lo storico aforisma di Annibale che recita: «O troveremo una strada o ne costruiremo una».