Pressoché ignorato a Cannes, dove il pubblico si è diviso fra la standing ovation e l’abbandono della sala già alle prime scene, «Crimes of the Future» è l’attesissimo ritorno dell’indiscusso maestro del body horror, David Cronenberg.
La fotografia itterica, cupamente virata in ruggine da Douglas Koch, e le lugubri architetture sonore di Howard Shore (storico sodale del regista e tre volte premio Oscar per la trilogia de «Il Signore degli Anelli»), fondano le atmosfere di una pellicola che riprende le tematiche di «Videodrome», «Crash» ed «eXistenZ», mettendo in scena una vera e propria summa del Cronenberg-pensiero.
La trama, un’intrigata spy story che sovverte le regole del noir, o se ne serve per veicolare contenuti più inerenti alla body modification e al significato politico del corpo, diviene il contenitore (o sacco mortuario) di un’estetica degna di Orlan o Flora Sigismondi: sedie e letti senzienti che anticipano un dolore ormai svanito, operazioni chirurgiche da remoto, performance estreme riprese da anelli-videocamera (rec-rings?), e poi ancora il corpo come teatro anatomico (ibridato con la tecnologia) e vera cavia del destino del mondo, tutto il Cronenberg che ti aspetti ed anche qualcosina in più, al punto che gli esegeti del Maestro hanno inarcato il sopracciglio a un’andropausa di maniera, mentre a nostro parere «Crimes of the Future» non è solo la stenta riproposizione di temi già ampiamente sviluppati nelle decadi ‘80/’90, ma introduce una serie di riflessioni estremamente (post)moderne.
Una particolare menzione va al patibolare e sofferente, quasi bergmaniano, Viggo Mortensen, ormai attore-feticcio del regista canadese, che qui ne traduce le ossessioni per la quarta volta, ma anche all’algida Léa Seydoux e alla sorprendente Kristen Stewart, per un cast che sembra il ristretto pubblico di un’esecuzione capitale o una compagnia teatrale reduce da un tamponamento a catena.
IL «TAGLIO» CINEMATOGRAFICO DI D.C.
In un futuro più che prossimo «prossimale» (in anatomia quella parte del corpo, o di un organo, più vicina all’origine), un’umanità che ha smarrito la soglia del dolore e la possibilità di infettarsi vive la chirurgia (da banco) come una nuova sessualità o come l’avanguardia di un’arte performativa che ha la sua star in Saul Tenser: vigilato, e operato (senza anestesia, ça va sans dire) dall’ex-chirurgo e partner Caprice, questi produce in modo regolare nuovi organi, o tumori, che gli vengono asportati durante spettacolari happening in scenari decadenti che ricordano Giger.
Ogni nuovo organo dev’essere censito, e tatuato, dal National Organ Registry e, mentre Saul ritiene le amputazioni. necessarie alla propria sopravvivenza, un movimento clandestino con a capo l’ambiguo Lance Dotrice diffonde il verbo di una chirurgia incontrollata che permetta ad ogni essere umano di potersi nutrire di plastica o scarti industriali; padre di Brecken, bambino in grado di ingerire «naturalmente» plastiche grazie all’emissione di particolari succhi gastrici, Lance sogna un’evoluzione naturale dell’apparato digerente che, come per suo figlio, consenta la mutazione genetica che lui e i suoi seguaci scimmiottano via bisturi.
Saul è per lui motivo di ispirazione e fonte di ricerca poiché, a suo avviso, invece di rimuovere artisticamente i propri tumori, dovrebbe lasciar fare all’organismo fino a raggiungere un vero e proprio sistema di nuovi organi in grado di consentire alla razza umana un salto evolutivo.
Ma la «New Vice», «organo» intergovernativo incaricato di investigare sulle nuove frontiere anatomiche, promuove un’astuta strategia della tensione infiltrando Timlin (Kristen Stewart) e lo stesso Saul, per sgominare i «mangiaplastica», al punto di boicottare l’autopsia del figlio di Lance, introducendo organi posticci nel suo corpo per dimostrare che non può esistere il salto evolutivo concepito dalla Setta.
Fra scenari (volutamente) a basso costo, quasi pseudoartigianali, e happening in luridi open space che, per la mancanza potenziale d’infezioni, si allontanano dall’asettico packaging di certa fantascienza neo(n)hollywoodiana, «Crimes of the Future» ridisegna (o cauterizza) una nuova estetica ricercando «la bellezza interiore», ironica metafora di un jet set fermo a canoni estetici stereotipati ma truccati dal politicamente corretto.
Il finale, per buona parte della critica troppo tranchant, è invece così nichilista da sfiorare il misticismo e induce a riflettere (come poche altre pellicole) sul futuro della razza umana, non dal punto di vista ecologico ma anatomopatologico.
BODY IS REALITY
Se la chirurgia è il nuovo sesso, cosa ne rimane del vecchio?
Nel futuro prossimale di Cronenberg sarà ancora possibile riprodursi?
Già nel 1970, al suo secondo lungometraggio, il regista canadese aveva scritto, diretto e prodotto un «Crimes of the Future», la cui trama (o «taglio», sarebbe più appropriato) non aveva niente a che vedere con la sua ultima fatica, ma in cui un personaggio parodiava un parto femminile, in una società ormai priva di donne fertili, rigenerando continuamente gli organi che gli venivano asportati: già c’era in nuce il progetto che il Nostro incuba(va) da un ventennio e che lo ha riportato al body horror dopo i pur apprezzabili «A History of Violence», «Maps to the Stars» e via dicendo.
L’apotemnofilia (il desiderio di asportare, o farsi asportare, parti del corpo) e il cannibalismo (vedi il suo romanzo «Divorati»), fanno parte della filosofia di David Cronenberg, come la patologica crasi fra tecnologia e corpo umano, indagata non dal punto di vista sociopsicologico come nella migliore distopia (vedi Black Mirror), ma proprio dal punto di vista fenomenologico; nel film nessuno, tranne il detective Cope della New Vice, si interroga sull’effettiva valenza artistica delle performances di Saul o Odile, modella disinteressata alla bellezza che si fa sfregiare il viso in diretta, poiché tutti sembrano ormai convinti che tali atti generino spontaneamente significato, senza alcuna mediazione critica o riflessione filosofica.
«Crimes of the Future» è quindi anche una critica all’arte contemporanea, incapace di separare atto creativo e fruizione, corpo ed espressione, fino al punto di colludere/collidere con un sistema che non permette alcuna evoluzione, umana ed artistica.
Hellzapopping o scabra wunderkammer, l’ultima fatica del ballardiano David inscena un futuro sempre più vicino, per parlarci di alimentazione, tecnologia e corpo, politica del controllo e decadenza artistica, il tutto con un simbolismo molto più diretto dei suoi lavori simili e antecedenti («apriti con me», sussurra un’eccitata Timlin mentre apre la cerniera innestata nel petto di Saul), al punto che chi ne lamenta la complessità non ne ha compreso, al contrario, l’efficace immediatezza.
Per sopravvivere dobbiamo smetterla di modificare l’ambiente per mutare invece il corpo e le nostre abitudini (anche estetiche) in funzione dell’ecosistema che abbiamo così pazientemente demolito nel corso dei secoli. Se esiste una nuova religione la sua ostia è fatta di scarti industriali e il corpo di Cristo non passa attraverso la vita eterna ma tramite un nuovo apparato digerente.
Germano Innocenti