Memoria: la ricerca del tempo perduto di Apichatpong Weerasethakul

da | Ago 19, 2022 | MONDOVISIONE

Si sposta dalla sua Tailandia per la prima volta il regista dall’impronunciabile nome Apichatpong Weerasethakul, giunto al nono lungometraggio che ha vinto il Premio della Giuria al 74esimo Festival di Cannes, sesto film complessivo e terzo in concorso, con una palma d’oro già in attivo nel 2011, ma continua a destare perplessità fra critica e spettatori per uno stile disallineato che richiede al fruitore un impegno sensoriale non indifferente.

«Memoria» è il suo ultimo parto, scritto diretto e co-prodotto da lui, ma con la straordinaria partecipazione (anche produttiva) di una Tilda Swinton alienata e alienante, come si conviene al suo personaggio, che recita in inglese e spagnolo in una Colombia primitiva e arcaica, traslazione amazzonica della Tailandia registica, schiacciata al momento dalla dittatura militare.

Pietra miliare di un cinema di sensazione che flirta con molti generi senza sposarne nessuno, la pellicola di A.W., figlio di due medici itineranti nei villaggi tailandesi, induce a una riflessione profonda sulla modernità e sul peso del Passato, attraverso una grammatica immobile e quasi voyeuristica che trasforma lo spettatore in soggetto contemplativo della stasi attoriale.

La Colombia paramilitare di «Monos» muta in sogno cristallizzato, in grado di trasmettere una memoria senza tempo all’ «antenna» Swinton, frastornata viaggiatrice con la testa percossa da un’ossessione ecolalica.

PENSO QUINDI SUONO

Jessica Holland, botanica scozzese che vive a Medellin, si sposta a Bogotà per far visita alla sorella malata e lì incontra l’archeologa Agnes, con cui fa amicizia, alle prese con uno scavo che ha portato alla luce resti umani di 6000 anni fa; vittima da giorni di un boato improvviso che sembra sentire solo lei, Jessica si rivolge al tecnico del suono Hernàn per cercare di riprodurlo in studio e, dopo esserci riusciti, i due raggiungono una ditta di impianti di refrigerazione per fiori, visto che lei sta studiando i funghi che ne minacciano le orchidee.

Mentre Hernàn sembra sparire nel vuoto, dopo aver tentato un garbato approccio, Jessica si fa visitare da una dottoressa per cercare di capire le radici del suo disturbo (forse legato alla pressione, visti i 2600 metri di altitudine di Bogotà), ma dopo una lezione piuttosto retorica su quanto gli psicofarmaci possano far perdere d’intensità la vita, l’incontro con un pescatore mistico, anche lui chiamato Hernàn e quindi probabile doppio del fonico scomparso, suggeriscono alla protagonista una serie di considerazioni sul tempo e sul ruolo del passato che, senza risolverlo, sembrano inquadrare il suo disturbo in un contesto più ampio.

I riferimenti più evidenti del regista tailandese sono Antonioni, Lynch e qualcosa di Denis Villeneuve sul piano visivo, con un uso ossessivo delle inquadrature a camera fissa e dei piano-sequenza, ma anche con delle easter-eggs come i cambi di luce durante un paio di colpi e il dettaglio di un uomo che fugge durante uno di essi, mettendo in discussione il primato sonoro di Jessica: del regista di «Mulholland Drive» si riprende soprattutto il dualismo narrativo e la compenetrazione fra sogno e realtà, come quando Tilda si ritrova in un parco con lo stesso cane che la sorella malata ha visto in sogno, mentre di Antonioni è il tema dell’alienazione, attualizzato, soprattutto dal punto di vista  di un progresso tecnologico senza il corrispettivo etico-culturale.

Ma cosa rappresenta il rumore che sente Jessica-Tilda?

La donna lo descrive come una sfera di cemento chiusa fra due pareti d’acciaio battute dalle acque marine, che si contrae e dilata di continuo; metafora di un martellante disagio esistenziale o della malattia mentale vissuta come ricerca? Il realismo magico di A.W. raggiunge il suo apice nel dialogo a bordo fiume col pescatore Hernàn che, mentre squama il pesce e ascolta le scimmie urlatrici della foresta, spiega a Jessica quanto, ricordando tutto, lui debba scegliere cosa trattenere nella memoria futura e, di conseguenza, quanto l’esperienza come concetto assoluto sia di per sé negativa.

La botanica gli chiede di addormentarsi mimando la morte, visto che l’uomo appartiene a una tribù che dorme con occhi e bocca aperti e non sogna, così egli si distende non distante dal letto gorgogliante del ruscello e in un interminabile fermo-immagine lo osserviamo morire a sé stesso, in una plasticità pittorica così anacronistica da risultare commovente.

«Memoria è però anche un film sul continuum temporale, visto che i resti umani rinvenuti nello scavo archeologico d’un tunnel presentano un foro sul cranio che verosimilmente le antiche tribù praticavano per far fuoriuscire gli spiriti maligni dalla testa, la stessa testa che Hernàn si massaggia simbolicamente dopo essere «morto», evidente segno di continuità tra passato e presente, futuro imminente e memoria storica, sogno cosciente e realtà.

Nell’era dell’iper-visibile e della sovraesposizione mediatica il suono è rivoluzionario perché mediato dai sensi individuali e questo individualismo anarchico (malato perché anarchico e anarchico perché malato) è la risposta di A.W. all’omologazione di un cinema ormai istintuale, nemico dell’evento e dell’esperienza; il «popolo invisibile» che vive nella foresta e agisce nell’oscurità pluviale, diviene la metafora di un’assenza che ormai si pone come unica forma di resilienza all’incedere di uno spettacolo, inteso à la Debord, che si riproduce metastaticamente all’infinito.

Nell’era della riproduzione tecnologica delle immagini, che genera ogni giorno un considerevole archivio individuale, la vera memoria è quella filtrata dall’esperienza (lasciata sedimentare negli anni, se non nei secoli): forse, in definitiva, il messaggio del regista tailandese è che l’unica risposta possibile alle nostre personali ossessioni è sognare la memoria degli altri, annullando il concetto lineare di tempo, e fare della morte solo il cambio di luce fra un ricordo e l’altro.

Germano Innocenti

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